domenica 27 novembre 2022

Parlandoti

 



Parlandoti


A volte penso 

che vorrei tanto 

entrare nelle teste

per uscire da uno stato

che mi prende

quando la gente si perde

e ci sono vie

che separano mondi...

e vorrei capire come

trovarti tra i muri 

vorrei una voce diversa

e parole adatte

per dirti di restare

vorrei capire

dove sono e perché

poi ci penso bene

e mi rendo conto

che è un bene non capire

e la non comprensione

è un lusso

ti risparmia la delusione

e il sapore del disgusto.


Regina Re

giovedì 24 novembre 2022

V per




 V per


Vendetta.

Scopo o ragione.

Il principio della fine

di una statica azione

Un ricco piatto

e un forte digestivo

Non so.

Ma ti mantiene vivo.

Un ricordo mangia il presente

e il domani si attende

mentre ti ammiri

in uno specchio di conseguenze

sognando circostanze

luoghi comuni

discorsi mai percorsi

cammini mai intrapresi

e pensieri scoscesi

di una vanità in offerta

perfetta

su tacchi d'ansia

e makeup da valletta.


Regina Re

martedì 22 novembre 2022

Memento



Memento 

Era salita sul treno proprio nell’attimo in cui udiva il segnale del capo stazione e le porte automatiche avevano emesso lo sbuffo che preannuncia la loro chiusura.

Aveva la borsa a tracolla e subito l’aveva sfilata per sentirsi meno soffocare dal caldo che stagnava all’interno della carrozza e che si avvolgeva intorno alla sua testa come una busta di plastica, che si gonfiava davanti alla sua bocca quando questa riusciva ad emettere soffi di anidride carbonica. L’ossigeno sembrava non essere incluso nel biglietto e probabilmente aveva pagato soltanto per quel pietoso affanno dovuto alla folle corsa. Aveva subito cominciato a guardarsi intorno per cercare un posto libero e si era ritrovata a fissare sguardi di pendolari che penzolavano intorno, che si muovevano a ritmo della carrozza, cullati dai rumori e dagli schianti che giungevano dal pavimento plastificato.

Era solita osservarli e scovare dietro il loro sguardo i loro pensieri appartenenti ad una cavalleria scadente, cavalieri senza nome e senza terra ma con un unico possedimento: Il posto. Camminava al centro dello stretto corridoio alternando sguardi da sinistra a destra e da destra a sinistra, come durante la visione di una partita di tennis, in cerca di un posto dove gettarsi.

“Puzzo, non ti sedere, così sto più comodo”, le avevano detto gli occhi del ciccione sudato alla destra del corridoio.

“Sei proprio una gnocca, dai siediti, così mentre tu guardi fuori dal finestrino io mi ti guardo le tette un pochettino!” , le avevano detto gli occhi accompagnati dal labiale del tipo in giacca e cravatta seduto alla sinistra del percorso obbligato. Forfora sulla giacca, tipico.

“Signorì, stu posto è meo, me so’ portata la busta della spesa che alla prossima discesa sale la commare!”, le aveva detto la vecchia rugosa con le mani/vanga quando si era nuovamente voltata alla destra di quell’esposizione da retrobottega di articoli fuori moda e fuori luogo.

Aveva cominciato a sudare e ogni tanto cercava di prendere ossigeno dalla corrente  d’aria creata da quei pochi finestrini che non erano stati sigillati  e che tagliava il corridoio per la lunghezza, in alto, vicino al soffitto della carrozza. Il sollievo di un istante.

Poi quei due occhi  innanzi a sé, contro i quali era sbattuta dopo aver distolto i suoi dalla vecchia. L’avevano fissata. Lui non aveva avuto alcuna espressione, le era scivolato davanti e si era seduto al suo posto, di fronte a lei che era ancora in piedi ferma.

Nel distogliere lo sguardo da quel volto anonimo e nel riportarlo al centro del corridoio, sul vetro della porta della carrozza aveva messo a fuoco la grossa croce nera che era come scarabocchiata sul braccio di quell’individuo. Continuava a vederla, mentre con il pensiero tentava di scavalcarla, di smettere di leggere le scritte nere in latino che adornavano quel braccio come bracciali e rifugiarsi un metro più avanti. Un angolo, un posto libero. Finalmente.

Aveva chiuso gli occhi e guardato di fuori al finestrino.

Ma qualcuno aveva cominciato a parlarle nella testa.

 

“Memento putei in quattuor taxos”.

Si era voltata di scatto verso sinistra con gli occhi sgranati, ma non c’era nessuno vicino al suo orecchio. Un colpo di sonno. Aveva richiuso gli occhi appoggiando l’orecchio destro ed il capo tra il sedile e il vetro del finestrino, e subito le era apparsa quella croce e alcune lettere “MENTO-TE-IN-TUO”. L’immagine era molto più nitida nel buio rispetto ad un attimo prima, quando era incorniciata dal chiarore della pelle di quel braccio.

Le lettere continuavano a muoversi sino a formare la frase che le era stata sputata nel cervello. Un colpo di sonno enigmistico. Non le era mai accaduto.

Il caldo però aveva avuto  il sopravvento sui suoi perché e d’altra parte lei non era molto brava a risolvere enigmi. Di solito barava ai cruciverba, quelle caselle vuote la infastidivano e allora google era sempre l’ultima spiaggia, un’ottima risposta sia in orizzontale che in verticale. Le intersezioni venivano da sé, croci, quattro punte e un centro.

La sua limitata conoscenza della lingua madre dell’italiano le aveva permesso comunque di tradurre quella frase, sebbene il senso vero le risultasse decisamente inafferrabile.

“Ricordati del pozzo fra i quattro tassi”, no: “Voglio solo ricordarmi della spiaggia e del mare”, aveva pensato richiudendo gli occhi,  cercando di tuffarsi nuovamente nell’acqua fresca come aveva fatto il giorno prima, l’ultimo giorno di ferie prima di tornare in ufficio e ricominciare i viaggi della speranza in treno. Il buio sembrava essere più fresco della luce e quel finestrino opaco e unto le aveva quasi trasmesso una sensazione di benessere. Forse non lo pulivano dal dieci anni, ma tanto pure il sedile sul quale era seduta sicuramente ospitava oltre lei altri miliardi di organismi nascosti tra la polvere.

“Aria, ho bisogno d’aria, soltanto un po’ di aria”, aveva pensato mentre il treno aveva cominciato a cullarla insieme a tutti gli altri abitanti di quella carrozza.

 

La stanza era bianca, il pavimento pure, fresco, gelido. Il freddo dai piedi nudi le era salito su per le gambe sino ad arrivarle alle dita delle mani. Aveva mosso le dita della mano destra per capire se fossero le sue. Poi l’aveva guardata la mano destra e aveva riconosciuto quei quattro punti tra il pollice e l’indice. Al centro il quinto punto. Sì, era la sua mano.

“Vuoi aria?”, aveva detto una voce maschile alle sue spalle, “Ecco la tua aria, ti do la mia, te la regalo”!

Una mano le aveva afferrato il collo e le aveva spinto la testa verso il pavimento di ghiaccio sul quale si era aperto il vano di un pozzo nero.

L’acqua le aveva invaso le narici e le orecchie, non c’era aria in bocca, non c’era stato tempo di prenderla. Doveva stare tranquilla, da lì a poco, un istante  prima di soffocare avrebbe cominciato a respirare. Accadeva così, durante quei sogni.

“I muri ti guardano, ti osservano, mentre tu soffochi al centro, scava, scava, qui sotto c’è la tua aria ahahahahah!”

La mano l’aveva ripescata strattonandole la testa all’indietro…aria…aria…

 

La testa le era caduta in avanti con uno scatto, aveva aperto gli occhi mentre respirava affannosamente. Era sudata, appiccicata, terrorizzata.

“Checcazzo di sogno!”, aveva pensato alzandosi e cercando la borsa che aveva stretta nella mano destra. Si era guardata la mano. Dove aveva visto quel tatuaggio che non aveva mai avuto? Si era diretta verso il bagno in equilibrio precario. I jeans le si erano appiccicati alle gambe, erano un tutt’uno con la pelle. La maglietta faceva quasi intravedere il modello di reggiseno, meno male che era nera. Aveva bussato, libero. Era entrata e subito aveva chiuso la porta alle sue spalle, messo la borsa a tracolla per non appoggiarla da nessuna parte. Aveva preso dalla borsa un pacchetto di fazzoletti di carta e con uno aveva spinto il pulsante del rubinetto del lavandino. Allora si era bagnata la faccia, attenta a non toccare gli occhi, rimmel e matita sarebbero colati miseramente. Si era tamponata la faccia con un altro fazzoletto e poi l’aveva usato per abbassare la maniglia della porta del bagno. Aperta la porta si era voltata indietro per lanciare il fazzoletto nel cestino e girandosi aveva sbattuto contro una maglietta altrettanto sudata.

Era di nuovo davanti a lei, quel volto anonimo, senza espressione. Non era riuscita neanche a dire “Scusi”, l’aveva pensato ma non l’aveva detto. Si era appiccicata alla parete per non toccarlo nuovamente ed era strisciata via, di scatto, voltandosi di spalle e dirigendosi verso il suo posto.

“l’anima è crocifissa dal corpo”, quella voce di nuovo, non si era voltata, aveva accelerato il passo per poi sedersi di nuovo in quell’angolo e chiudere gli occhi per non ascoltare.

Dopo poco aveva sentito lo sbattere della porta del bagno e i passi lenti si erano fermati di colpo, non lontano da lei. Il cuore le batteva e gli occhi erano incollati, cercava di non respirare, di non emettere alcun rumore.

“Sono quattro, i guardiani”, aveva sussurrato la voce allontanandosi.

Il treno si era fermato. Un altro carico sul carico. Altro calore. Meno aria da dividersi.

Lei continuava a tenere gli occhi chiusi.

 

“Prego signora, si sieda”, questa volta lui non aveva parlato a lei, o alla sua testa.

Aveva aperto gli occhi e si era voltata verso il sedile alle sue spalle, cercando di sbirciare indietro, a pochi metri da lei, il dialogo che si stava svolgendo. Era come se dovesse avere la conferma che la voce uscisse dalla bocca di lui e non da quei due occhi inespressivi.

Lui si era alzato dal suo posto e aveva invitato a sedersi la signora di una certa età che era appena salita con il suo ventaglio, in cerca di una sistemazione per non morire in mezzo al corridoio

“Grazie figliolo, che Dio ti benedica!”, aveva detto la vecchia commossa dal gesto.

Lui aveva avuto uno scatto, come se improvvisamente una belva si fosse lanciata dentro il suo corpo, attraversandolo e lui l’avesse vomitata dalla bocca.

“Dio non benedice un cazzooooo!” aveva urlato in faccia alla donna che era rimasta di sasso a fissarlo, cercando di sprofondare nello schienale del sedile impolverato.

Forse il suo cuore avrebbe anche ceduto se lui non si fosse allontanato dal suo volto, per voltarsi intorno velocemente, cercando di catturare tutti gli sguardi che gli si erano appiccicati addosso. Parlava a scatti, con gli occhi sgranati:

“Sono quattro chiodi, quattro, sono quattro, freccia di tasso nel costato, veleno d’albero, morte nell’orecchio, al centro, quattro, sono quattro, sono dentro!”.

Aveva alzato il braccio destro e mostrava a tutti la sua croce.

Si sentiva un ronzio, il ventaglio era caduto a terra e la vecchia muoveva le labbra e, simultaneamente, le dita delle mani congiunte in grembo a recitare un invisibile rosario.

Il pubblico guardava per terra bisbigliando, con l’atteggiamento di chi è colto da improvvisa vergogna al posto di chi dovrebbe vergognarsi.

 “Ci mancava solo il pazzo di turno!”, dicevano.

 

“Biglietti prego!”, la porta della carrozza aveva annunciato il controllore con uno sbuffo soffocato. Pure alla porta mancava l’aria. Il nuovo abitante della carrozza aveva aperto un varco dal quale un soffio di follia era fuoriuscito ed aveva abbandonato quel luogo di calore, rumore, stupore. Anche lei aveva lasciato quello schermo tra i sedili, si era voltata verso il controllore  e aveva preso il biglietto dalla tasca interna della borsa.

Il controllore lo aveva vidimato ed aveva proseguito la sua passeggiata di controlli più avanti.

“Favorisca il biglietto”, aveva chiesto il controllore al volto sudato e nuovamente rientrato nell’anonimato.

Nessuna parola, la belva forse era fuoriuscita insieme all’aria, si era ripartita in dosi ed era penetrata nei polmoni degli spettatori. Aria rubata per mancanza.

“Non ha il biglietto?”, aveva chiesto nuovamente il controllore.

Forse gli occhi avevano risposto al posto delle parole.

“E’ pregato di scendere alla prossima”, aveva detto il controllore.

Il treno si era fermato e dopo pochi minuti era ripartito. Aveva lasciato una persona sul binario e lei lo guardava dal vetro allontanarsi piano piano, solo, con la sua croce.

 

Si era sentita leggera, libera. Aveva ricominciato a respirare.

 

“Non paga il biglietto d’andata in treno e vince quello di ritorno in manicomio”

 

Nel pomeriggio di ieri, presso la stazione di Altrove un passeggero diretto verso Altroquando è stato invitato dal controllore  a scendere dal treno in quanto non era in possesso del biglietto di viaggio. Nella piccola stazione ferroviaria si è seduto ed è rimasto fermo sulla panchina, sotto il sole a fissare i binari ripetendo continuamente la frase “Ricorda, sono quattro, i guardiani ti guardano”. Una pattuglia ferma al bar della stazione si è avvicinata e, notando un evidente tatuaggio a forma di croce sul braccio destro dello strano individuo, non ha mancato di chiedergli di favorire i documenti.

Poiché la persona in questione continuava a fissare il vuoto ripetendo sempre la stessa frase, è stato scortato presso il comando di polizia più vicino. Dopo qualche telefonata è saltata subito fuori l’identità. Una croce così è facile ritrovarla. Difficile nasconderla.

Il giovane era evaso in mattinata dal manicomio criminale della Capitale.

Un’infanzia difficile. Da bambino era un angelo. Poi i genitori si erano separati e lui aveva sofferto. Allora si era tatuato e da qualche anno aveva cominciato a dare di matto.

I conoscenti lo ricordano come un ragazzo che un attimo prima era capace di fermare le macchine per fare attraversare una vecchietta e un attimo dopo era capace di accoltellare qualcuno perché il distributore di sigarette gli aveva rubato i soldi.

Dopo aver preso a calci alcune macchine parcheggiate, spaccato la  testa con una bottiglia ad uno  e aver frantumato svariati denti con un calcio ad un altro, l’accoltellamento e la morte dell’accoltellato lo aveva spedito dritto nel carcere dei matti.

Da lì è evaso ieri mattina, dopo aver affogato nel lavandino della sua cella l’infermiere che era entrato per fare l’iniezione di sedativo. Non si sa come abbia fatto imbottito di farmaci,  vista la corporatura dell’infermiere armato dell’inseparabile sfollagente. Ha indossato il camice sopra il pigiama ed è riuscito ad oltrepassare il perimetro di guardie armate all’esterno. E’ stata dunque richiesta un’ispezione dell’ospedale e la verifica dei sistemi di sicurezza all’interno e all’esterno del perimetro di contenzione.”

 

Lei non leggeva i giornali e quell’articolo in terza pagina non lo lesse mai.


Regina Re da "Effetto Munroe"

lunedì 21 novembre 2022

Pelle


 


Pelle


Sento una melodia stonata

un sottofondo senza fine

un vortice che lento avanza

trascinandomi al confine


sento ossa e carne in mezzo

e il sangue che si muove

e affoga il mio cervello

ma non sento il cuore


quello ora non lo sento

sento un limite sottile

che pesa come cemento

e apre crepe infinite

Regina Re

Memoria di latta


 Memoria di latta


Mi prudono le mani ma non c'è niente tra le dita

giro i palmi e cammino sulle strade, disegnate

Felicità, cuore-testa-intuito,

destino e vita

Trovo i ricordi tra le rughe dell' infanzia

una lattina e il profumo dell' ovomaltina

una minuscola cicatrice tra il pollice e l'indice 

mi dice:

inversione di marcia

Torno indietro

sotto il tavolo della cucina

con la mano in tasca

e il senso di colpa per la poca attenzione

e il tavolo è un cielo sereno 

celeste, come un disegno

che non si apre come la carne

e come quei tagli 

che solo la carta sa fare

Regina Re

sabato 19 novembre 2022

Con densità geometrica

 



Con densità geometrica


Sono al riparo 

ma non piove sempre diritto

al suolo i laghi d'asfalto 

sono specchi liquidi

aghi fini ed infiniti 

disegnano lacrime, brevi

interrotte da tacchi invadenti

sospese nei tratti

di sguardi bassi 

e ricordi appesi, 

come panni lesi.

Una condensa malinconica

di destini decisi e incisi

piove di traverso

come unità di volume

lungo diagonali di vetro

che graffio diritte sul petto

per chiudermi dentro

una massa informe

in un'area molle 

tra la punta delle scarpe

e un angolo di cervello


Regina Re

venerdì 18 novembre 2022

Pre-visioni




Pre-visioni


Siamo i bambini di ieri, ma non ricordiamo

Portiamo a spasso bambole di plastica

Quelle con gli occhi sempre aperti

E i capelli di nylon, 

Dentro una valigia light

Il nostro bagaglio a mano

Un disco che piange ininterrottamente

Un urlo ammortizzato

Da strati di intolleranza

Da egoismo travestito

E ripartito in quotidiana dose:

"20 gocce di perbenismo"

Ci fa stare meglio

Per il nostro futuro

L'idea che il mare sia infinito

E che ci siano nascite 0

E che i vecchi non ci saranno più

A rallentare il traffico

Domani le cose cambieranno!

Saremo ancora noi i bambini di ieri

Quelli con gli occhi sempre aperti

Con extension di illusioni vere

Dentro un selfie ritoccato

Con le nostre statistiche in mano

E certezze senza scadenza

Sullo scaffale del supermercato


Regina Re

La battigia





La nota di una melodia stonata nel lontano Agosto del 2014


Questo racconto mi ricorda tutte le palme del mio giardino che ora non ci sono più. Lo scrissi proprio qui, in Sardegna, seduta in veranda a guardare i primi segni causati dal parassita. 


Esercizio Di Scrittura creativa

da un incipit scritto da Nicola Cudemo


EDS La battigia


Spiaggia di primavera, che di primavera non ha molto.

C'è un vento freddo dal nord e la temperatura si è abbassata

parecchio. Il mare fa quello che deve fare, sbianca, rumoreggia e mi

riempie le lenti degli occhiali di un nebbia di goccioline. La battigia non è un posto molto piacevole, così mi addentro tra le dune, fra i ginepri radi della sabbia. Raccolgo le bacche marroni. Tanto rimarranno nella busta in macchina a fare la muffa, fin quando non le butterò. 

La sabbia ha una caratteristica invernale, fa come una crosticina, sopra. Seguo orme abbondanti, di cani, volpi, uccelli e insetti. Geroglifici di vita

insensata, brulichìo di dna.

La pace fra queste dune e fra la ramaglia

stenta dei ginepri corrisponde, stranamente, ad un occhio di pace

interiore. Occhio di ciclone, bottone dorato nel sole.

Sarà che a volte tocchiamo per caso la perfezione di un momento come

un'isola nel tempo. Sarà che sto invecchiando.

Ma non è per quello, perché capita anche da giovani.

Faccio un percorso fra muretti di tufo così invecchiati da essere

parte naturale del posto. Arrivo al canale dove gracidano le rane e si

sente la statale. Vedo la mia auto parcheggiata sotto la palma. 

So che non durerà questa pace.

Ma che cazzo.

Avrò tempo di stare in pace quando sarò sottoterra.

(Nicola Cudemo)


La macchina sembra un neonato avvolto nell’ombra, tra le braccia della palma.

Le foglie arrivano sino a terra e la chioma ha un anomalo portamento, il caratteristico aspetto divaricato ad ombrello, la figura postuma del collasso. Il parassita ha abbandonato la pianta ed è migrato altrove. Come tutte le palme alte della zona anche questa da lontano la puoi scambiare per una capanna. Alcune sono decapitate. 

Nel giardino di una casa, su di una palma dal tronco abbastanza largo ci ho visto una casetta di legno, con la scala. Fortunato quel bambino. 

Io l’ho sempre sognata una casetta di legno.

I topi, sì, ci vorrebbero proprio i topi per salvare le ultime rimaste. Gran bella prospettiva allearsi con il nemico, quando non hai altre soluzioni.

Guardo l'orologio, un Cartier, una delle poche cose di valore rimaste nella mia vita. Non è un valore affettivo ma l'ultimo dei miei affetti, il denaro. Ho bisogno di soldi, oggi, poi basta, non ne avrò più bisogno, mai più. La statale continua ad echeggiare rombi di auto, riesco a riconoscere la cilindrata, mi concentro cercando di isolarmi dal lontano rumore del mare e dal vicino gracidare delle rane. Il vento freddo trasporta ciò che sto aspettando, il rumore dei pneumatici che si addentrano nella strada dissestata tra buche, terra e sassi. La Micra sta arrivando.

Quella troia è puntuale, come sempre.

Pulisco le lenti degli occhiali con la maglietta, voglio guardarla bene negli occhi ma non voglio che oggi lei guardi dentro i miei. Ogni volta che lo fa riesce a scovare la mia disperazione e allora diventa prima mia madre e poi la mia compagna, le uniche donne che ho amato. La prima da sempre, la seconda da troppo poco tempo.

Le uniche donne che ho seppellito. Poi il nulla, un buco nero e lei con i suoi buchi da riempire con i miei soldi.

Il rumore della frenata sembra far zittire le rane, la polvere si alza a formare una nuvola tagliata dallo sbattere violento dello sportello e dalla sua voce che mi raggiunge: “Allora te l’ha data? Ciao, come stai? Oddio cos’hai, cos’hai fatto ai capelli oh, no, scusa, intendevo non stai male ma” e scoppia in una risata che sta tra urla e pianto di dolore. Una risata che fuoriesce tra le fessure delle dita che le coprono la bocca. Si porta sempre le mani davanti la bocca forse per nascondere i denti rovinati. Ha belle mani, peccato quello smalto nero, smozzicato, come il rossetto rosso sulle labbra, che ne altera ogni tentativo di espressione. Mi avvicino a lei, Gioia, la mia non so cosa, il mio nulla, il mio tutto, la mia droga sebbene non sia io a farmi. Io mi faccio lei.


"Cos'hanno i miei capelli? Non sono di suo gradimento?" il mio tono è da nobile senzaterra, non a caso mi chiamo Giovanni. Un tempo forse lo sono stato un nobile servitore dello Stato, oggi sono un Generale oltre i sessanta, in pensione e quasi senzatetto, che ha perso venti chili e si è tinto i capelli da surfista per una che al massimo arriverà marcia ai trenta.


Gioia si toglie le mani dalla bocca e se le passa intorno al collo. Le unghie lasciano segni rossi, striature parallele tra cui le note della voce stridula si posano come una melodia stonata: "No, è che non ti ci vedo, mi devo abituare, tutto qua. Anzi stai bene, sì sì bene, benissimo ma dammela, non ce la faccio più".

Segni su altri segni, geroglifici di vita insensata.


"Ti ricordi quando ci siamo incontrati? Il destino vero?" il mio tono sarcastico non la distrae dall’oggetto del suo sguardo, perso nella chiazza di vomito ai suoi piedi, tra i tacchi che sembrano un prolungamento delle gambe ad arco, scarne, livide dal freddo che nude fuoriescono da una logora minigonna in jeans.

“Eri appena scesa da una macchina e i Il tuo amico ti aspettava al tavolo del bar, come sempre, ma sei venuta diritta verso di me. Bel colpo le condoglianze su commissione.”


Quest’ultima frase la fa scattare ed è allora che si avvicina come soltanto lei sa fare: “Bel colpo il tuo invece, si sentiva ancora l’odore d’incenso del funerale e mi hai messo 100 euro sul tavolo. La amavi vero? Da quanto tempo era malata? O meglio, da quanto tempo ti mancava una donna?”

Le note si tramutano improvvisamente in insulti, in ricatti e soldi, soldi come pioggia che cade nelle sue vene. Un mare nero in cui galleggia la mia liquidazione, la pensione, la casa che ho venduto, tutto confluisce nello scoperto della mia coscienza, nei debiti che ho col mondo e con me stesso.

È la fine, è un suicidio color giallo epatite.

Penso alle bacche marroni. Rimarranno nella busta in macchina a fare la muffa, fin quando

non le butterò via. Perché aspettare?


"Ci credi al destino? Io no. Credo nella gente che parla e parla e parla. In un paese le voci non si perdono come le persone, come me. Questo non si chiama destino. Io la chiamerei opportunità.”

Ma lei non crede, lei prende e basta. Le interessa solo una cosa. E ormai sono io a portargliela.


Il parassita ha attaccato la pianta e ha deposto centinaia di uova nelle ferite del tronco. Le larve scavano da mesi profonde gallerie dirette verso il cuore. Una volta sazie saranno bozzoli ovali di fibra di palma, escrescenze deformi alla base della pianta. Una famiglia di ospiti in attesa di volare via, alla ricerca di un nuovo pasto a base di frutta marcia.


I topi, sì, ci vorrebbero proprio i topi per salvare le ultime rimaste.

Occorre allearsi con il nemico, quando non hai altre soluzioni.


Guardo verso la palma e poi mi soffermo su di lei che è nel mezzo e poi ancora guardo verso il cielo.

La statale è in silenzio e le rane aspettano il loro turno, una pausa di pace fra alta e bassa marea, un posto piacevole ora in quest’ equilibrio che non durerà, ma che corrisponde stranamente ad un occhio di pace interiore.

Occhio di ciclone, bottone rosso-brunastro nel sole.

Il bottone si allarga e diventa un insieme di migliaia e migliaia di occhi che osservano attoniti.

Questa volta non me.


Gioia è in piedi, nuda, in attesa di ricevere ancora. Apri tutto mia cara, ti darò un’altra opportunità, sei pronta?

“Non ti preoccupare, ce l ‘ho in macchina” le dico e passo oltre la sua figura e lei non si volta neanche con lo sbattere dello sportello e i miei passi che si dirigono nuovamente verso di lei mentre una nuvola di coleotteri inghiotte l’aria, seguendo una traiettoria a spirale, scavando gallerie dirette verso la sua bocca, che è aperta in un urlo soffocato.

La maglietta bianca trasparente lascia intravedere il reggiseno nero che attraversa in orizzontale le vertebre. Lascio che la lama si insinui tra il collo e il bordo bianco della maglietta, una sottile linea d’argento che per un istante potrebbe sembrare un gioiello prezioso.

L’onda sbatte violentemente verso il suolo.

Il mare fa quello che deve fare.

Sarà che a volte tocchiamo per caso la perfezione di un momento come

un'isola nel tempo. Sarà che sto invecchiando e il bianco non è il colore del sole.

Ma non è per quello, perché capita anche da giovani.

La nuova palma è così invecchiata da essere parte naturale del posto.

Il tronco è abbastanza largo.

Poggio a terra la mazza.

Eccola la mia nuova casa. Io l’ho sempre sognata una casetta di legno.

So che non durerà questa pace.

Ma che cazzo. Avrò tempo di stare in pace quando sarò sottoterra.

Per ora le ho tagliato soltanto la testa.


(Regina Re)

Cosa resta

 




Cosa resta


Mi chiedo cosa resta di noi quando ce ne andiamo via. 

Andiamo dove non c'è alcuna ragione di farsi del male, perché non ci sarà nessuno a soffrirne. La bellezza dev'essere distrutta perché è l'unica cosa che attira l'attenzione e l'attenzione su di noi è una grande responsabilità. Non vogliamo responsabilità, né figli a carico da far crescere con i nostri debiti insanabili.

Non riusciremo mai a pagare per i nostri errori. I bambini sono generatori di troppi perché.

Noi siamo stati cullati dall'insicurezza e ora ci rilassiamo soltanto nei nostri letti di limiti con materassi fatti su misura.

La nostra pena è che non vale la pena investire in miseri fallimenti che ci danno in motivo per ubriacarci ogni sera. Non vogliamo una casa, non vogliamo una Chiesa, non vogliamo perché volere è potere, e potere è dovere.

Diamoci fuoco che è meglio, che la cenere disinfetta e sbianca anche le lenzuola. Un faló di delusioni da dare in cambio alle aspettative.

Non vogliamo occhi che ci ammirano perché l'occhio coglie anche le nostre smorfie di dolore. 

Cosa resta dove non siamo più presenti?

La soddisfazione di aver scelto di non starci.


Regina Re

martedì 15 novembre 2022

L’Autanasia


 

L’Autanasia


Vado a fare il bagno di mezzanotte. 

Nell’Autan. Qua ci stanno le zanzare di una volta, quelle notturne che emettono il classico ronzio che non ti fa dormire. Te se mangiano mentre tu segui il ronzio con l’infradito in mano lanciandola ovunque sul muro bianco meno che sull’insetto infame. “Nooo! Ma che fai, ammazzi le zanzare? Poverine, già vivono poco, un giorno. Lasciale vivere!”

No, le zanzare vivono un giorno da quando c’è l’Autan. Prima vivevano 5 minuti dopo che mia nonna riempiva la casa di DDT, quando il DDT era user friendly, te lo mettevi pure a posto del profumo. Ora il DDT fa male, pure l’Autan tropical fa male! 

No, fanno male le zanzare che oramai si sniffano l’Autan all’aloe vera (come se ci fosse quella finta), e quello per le creature (che non serve a un cazzo) e infatti i bambini girano coi pois rossi (come pimpa, il cane col morbillo). L’Autan  giallo, quello che ti lascia in gola un retrogusto di benzina, quello non gli piace. Con quello puoi andare anche in uno stagno. 

Ma una volta stordite non crepano, semplicemente continuano a girarti intorno come le palline di gomma dura (quelle che rimbalzano veloci) perché le zanzare si sono allenate per anni a schivare la famosa ‘Paletta’. Ora è impossibile spiaccicarle al muro, addosso, in faccia a qualcuno. No. 

C’è stato un tempo in cui avevano inventato questi zoccoli ortopedici che venivano usati per le zanzare. La gente non faceva che lanciarli contro le zanzare e gridare “schooo, shoooo!” Crearono un marchio che era l’unione di schoo (vattenne) e LoL : SCHOLL, lo zoccolo più brutto del pianeta (LOL) ma un’arma contundente mai testata precedentemente. 

Ecco mi dovevo sfogare, io e le mie misere havaianas. 

Metto pure la foto (passato e presente) in cui le zanzare non ci sono (ma ve le potete immaginare)


Regina Re

sabato 12 novembre 2022

Un’altra volta ancora




UN’ALTRA VOLTA ANCORA.


“Salvala salvala, salvala salvala, salvala salvala...salvala…”


Venti anni dopo.


“E’ tutto pronto, io sono pronto. Pronto da sempre…per te. 

Ho tagliato i capelli, li ho tirati indietro, torno indietro…per te. Neri, come i miei occhi, come i tuoi, i miei capelli lisci come i tuoi. Il colletto è perfetto, stretto, papillon nero, l’ho sistemato bene vero? E’ seta bianca la camicia, di seta la farfalla nera stretta e leggera, si scioglie, cade, scivola via. Posso respirare, aspettare e respirare. Giacca crema, soltanto un bottone chiuso, come te morbida cade, scivola sui pantaloni neri, nero profondo, come i tuoi occhi, come i miei capelli.

 Le scarpe, le scarpe…indietreggio…ecco, così le vedo, vedo tutto da lontano nello specchio. Lontano, sì, tutto è lontano, specchio è passato, ma oggi è qui con me, specchio sono io che aspetto te. Niente fiore oggi, niente taschino, giacca crema liscia, perfetta, luce riflessa resta, resta con me, saremo soli ancora, io e te. E’ tutto pronto, io sono pronto, sì…sono pronto. Ancora una volta ti aspetto, come ieri, come quando non c’eri. Niente taschino, nessun fiore, nessun fazzoletto piegato e stirato, aperto sul tuo volto il lenzuolo si è adagiato, disteso il tuo corpo di fiori è adornato. Oggi posso fumare, devo fumare, è tutto previsto, atteso, la sigaretta devo soltanto tenerla in mano e mostrarla. L’altra mano nella tasca, nascosta, coperta, avvolta, posa rigida e armoniosa accanto a te, la mia sposa. E’ ora, l’ora che attendo da tempo, ogni volta giunge l’ora, ogni volta, da allora. Leggo tutto, parola per parola, tutto ciò che deve essere fatto, ogni passo compiuto, ogni gesto, ogni sguardo. E’ scritto, dettato, stampato per noi, ogni volta un altro, ogni volta lei è diversa ma tu no. 

Tu sei sempre la stessa. La prima, sei stata la prima, la prima volta che ho pianto quando ti ho vista tendermi la mano, il nostro primo sguardo, amore infinito, lontano, sognato, andato, scivolato…Ti ho vista e mi sono perso, mentre tu mi avevi appena trovato, da molto tempo mi stavi cercando ed è stato un riflesso, come il mio mentre ti penso. Ti immagino, minuti, soltanto minuti e potrò accenderla, è scritto così, la terrò con naturalezza tra le dita, vicino al mio petto, come dopo aver tirato tutto dentro, tutto ciò che tra le mani svanisce ed il fuoco incenerisce. Fumo e cenere, polvere, vorrei toccarti, stringerti, baciarti. Voglio ancora amarti. 

Ancora, un’altra volta ancora, sarà perfetto, proprio come allora. Il tuo vestito, non l’ho ancora visto, non c’è scritto, non è previsto. L’ultima volta era nero, stretto, quello che avevi comperato da poco, quello appeso per l’evento atteso. Quell’evento lontano, che soltanto tu avevi programmato, studiato, aspettato. Eri bella in nero, bellezza che non va mai via, sei ancora bella? Sì. Sei ancora viva, sei ancora mia. 

Eri bella anche in bianco, il fascio di orchidee scendeva dalla tua mano e il tuo sorriso era infinito, era…

Dio no, no, no! Quello non era previsto, non era previsto, no… Non era prevista quella pioggia, non quella del cielo ma quella dai tuoi occhi, i tuoi  occhi neri, come i miei occhi. 

Sei tu? Sì sei tu lo sento, finalmente stai arrivando.

 I tuoi passi si avvicinano da lontano, i tacchi scolpiscono il marmo, i battiti martellano il mio cuore…eccoti di nuovo, amore. Fruscio di seta, odore d’incensi, echi di risa a distrarmi, allora, mentre tu ti allontanavi. Sei tornata ora e sei bianca ancora. Bianco è il fiore di seta tra i capelli, oro di ciocche morbide arrotolate  cade sulle spalle nude per coprire il freddo che ti ha portata via. 

Bianco è il vestito che hai scelto, semplice, semplicemente perfetto. Mi guardi, ti fermi e aspetti che io ti ammiri ma lo sto già facendo e non posso smettere di farlo, non posso smettere di ammirarti, non posso smettere,  da sempre, non posso smettere di amarti. 

Devo smettere, devo smettere, devo smettere…smettere…

No, non posso, ancora una volta, un’altra volta, un’altra volta ancora…

 Ti prendo la mano e ti guardo dal basso, ti seguo passo dopo passo...”


“Fermi così, inquadra prima l’arco…vai a destra, la sposa si appoggi di più alla colonna con la spalla sinistra, il braccio sinistro morbido giù, sì…così..proprio così, la mano destra tiene la pochette e scivola morbida lungo il fianco destro…sì…sì…brava, guarda alla tua destra…guarda lo sposo…guardatevi…ora inquadra lo sposo a sinistra, sì…così…metti a fuoco la fontana che si intravede tra i due al centro dell’arco, voglio come sfondo la parete in pietra della sala con la fontana, sì…così…ora inquadrali mentre si guardano dai lati dell’arco, fai vedere soltanto i capitelli corinzi, quello su di lei e quello su di lui…taglia l’arco in alto…così…bene…perfetto…lo sposo porti la sigaretta alla bocca con la mano sinistra, sì… faccia il tiro e mandi fuori il fumo e poi poggi la mano sinistra con la sigaretta sul suo petto…sì…sì…proprio così, fuma guardando la sposa…fermi così…sì….sì…sììììììììì…abbiamo la copertina…salvala!”


“Salvala salvala, salvala salvala, salvala salvala…salvala…”


“Mi avevi detto di andare a dormire, ma io mi ero svegliato. Eri un incanto e di una triste sposa avevi l’abito. Ho guardato quel ritratto, quello incorniciato, quello in cui sorridevi insieme all’uomo che se ne era andato.

 Lo stesso vestito, lo stesso sorriso, quello di quando per la prima volta mi hai visto. 

Ti ho vista salire e nel vuoto tendermi la mano…il nostro ultimo sguardo, amore infinito, lontano, sognato, andato, scivolato…”


“Salvala salvala, salvala salvala, salvala salvala…salvala…”


Stan aveva otto anni quando il padre morì. 

Ne aveva nove quando sua madre indossò il suo abito da sposa e, in una notte di primavera, si lasciò cadere dalla finestra dell’attico in cui vivevano. Stan posava per riviste dedicate al matrimonio. Le sue spose erano tutte copertine di varie riviste. Le sue spose erano anonime, manichini senza nome, vestiti incorniciati da ville lussuose. Le sue spose erano diverse, erano bionde, more...rosse. Le sue spose non vivevano con lui, era lui che viveva sempre con loro. Le controllava, le seguiva, le studiava. Attendeva. Soltanto quelle fortunate avrebbero ricevuto “il dono”. Soltanto per loro, un giorno, Stan avrebbe fatto qualcosa in più.

Le vittime avevano tutte un figlio maschio di nove anni.

Le vittime erano state spinte nel vuoto e lui le aveva guardate dall’alto mentre scivolavano avvolte dal bianco, splendore nella notte che le illuminava tutte, le sue amate spose.

Lui non le uccideva, lui le proteggeva.


“Salvala salvala, salvala salvala, salvala salvala…salvala…

Voglio vederti ancora una volta, un’altra volta, un’altra volta ancora…mamma...”


Regina Re


da "Circo Escher - Racconti di omicidi seriali" a cura di Nucleo Negazioni

venerdì 11 novembre 2022

Stay behind the yellow line

 



Guardavo attraverso la finestra

la scala sulla montagna.

Era la scala per gli elefanti. 

La piccola televisione arancione

era di plastica, non aveva uno schermo e tutti i miei programmi preferiti erano trasmessi direttamente dal mio cervello.

Il mio gioco preferito era immaginare di poter guardare qualsiasi cosa in qualsiasi momento.

Gli elefanti sarebbero arrivati, nel frattempo li vedevo sfilare in bianco e nero e mi chiedevo dove sarebbero mai andati, e perchè.

Mi chiedevo anche il perchè di quel cartello "Acqua non potabile" che il Comune aveva piazzato al vecchio fontanile , l'antenato della mia lavatrice. Io l'acqua l'avevo bevuta sino al giorno prima, come sempre, come avevo bevuto quella del rubinetto di casa.

Qualcuno mi aveva detto che allora avrei avuto miliardi di girini a spasso nello stomaco.

Mi chiedevo se i girini sarebbero mai diventati rane e, se sì, prima o poi li avrei vomitati ad uno ad uno dalla mia bocca. Il mostro d'acciaio era esploso qualche giorno prima, così ci aveva detto la maestra, avevamo anche fatto un disegno in memoria di quelli che avevano fatto un salto verso il cielo. Un cielo che per l'occasione era diventato verde, per tutta la notte. Nel mio disegno c'erano fuochi d'artificio in un cielo stellato. Non la vedevo poi così grave la cosa, e la mia bisnonna l'avevo vista morta. Per l'occasione avevo invitato tutti i miei amichetti al suo funerale.

Non era venuto nessuno.

Sono un viaggiatore, come tanti altri, ma non mi sposto poi tanto.

Un tempo il mio obiettivo era uscire, oggi voglio solo tornare, rientrare.

La strada è di ferro e tanti sassi grigi nel mezzo. Ma io non ci cammino mai. Dovrei gestire il mio tempo ma non ho ancora trovato il tempo disposto a farsi gestire da me.

Io non ho più un tempo e non ho più neanche un orologio. Non mi serve contare le ore che mancano o quelle perdute. Mi dicono che il tempo mio è uguale al tuo ma io non so gestirlo. Mi puoi forse insegnare? Non ho istruzioni ma soltanto ostruzioni.

Respiro aria che graffia e che mi farà implodere in una scura galleria dove mi vedo riflesso, dal finestrino di un treno.

L'aria è pesante e un giorno, forse, pioveranno rane.

Sono dentro la piccola televisione di plastica, arancione.

Mi guardo mentre gli elefanti sfilano lungo la scala, sulla montagna.

Non è una scala, è una cava.


Regina Re

Come parlare in pubblico


 

Di una cosa sono certa, che le parole stanno ai fatti come l’orario programmato del mio risveglio sta all’addio effettivo al cuscino. Non è che io non creda nelle parole, perché le parole sono belle ed é sempre un piacere ascoltarle. Ma bisogna lasciarle dove sono e analizzarle in un altro momento. Sono la diffidenza che non cerca di conquistare consenso insinuando nuvole di dubbi nella tua giornata di sole. Sono il silenzio che dice tutto, solo se vuoi e lo sai ascoltare.
La coerenza non é mai un’approssimazione o il risultato di un esercizio di stile. Non può derivare da un « farsi tornare i conti » (ho aggiunto di qua, ora tolgo di là). La coerenza è l’unità di misura che quelli come me adottano per trovare similitudini in un mondo di persone originali come le borse di Gucci sulla bancarella.

Regina Re