Memento
Era salita sul treno proprio nell’attimo in cui udiva il segnale del capo stazione e le porte automatiche avevano emesso lo sbuffo che preannuncia la loro chiusura.
Aveva la borsa a tracolla e subito l’aveva sfilata per sentirsi meno soffocare dal caldo che stagnava all’interno della carrozza e che si avvolgeva intorno alla sua testa come una busta di plastica, che si gonfiava davanti alla sua bocca quando questa riusciva ad emettere soffi di anidride carbonica. L’ossigeno sembrava non essere incluso nel biglietto e probabilmente aveva pagato soltanto per quel pietoso affanno dovuto alla folle corsa. Aveva subito cominciato a guardarsi intorno per cercare un posto libero e si era ritrovata a fissare sguardi di pendolari che penzolavano intorno, che si muovevano a ritmo della carrozza, cullati dai rumori e dagli schianti che giungevano dal pavimento plastificato.
Era solita osservarli e scovare dietro il loro sguardo i loro pensieri appartenenti ad una cavalleria scadente, cavalieri senza nome e senza terra ma con un unico possedimento: Il posto. Camminava al centro dello stretto corridoio alternando sguardi da sinistra a destra e da destra a sinistra, come durante la visione di una partita di tennis, in cerca di un posto dove gettarsi.
“Puzzo, non ti sedere, così sto più comodo”, le avevano detto gli occhi del ciccione sudato alla destra del corridoio.
“Sei proprio una gnocca, dai siediti, così mentre tu guardi fuori dal finestrino io mi ti guardo le tette un pochettino!” , le avevano detto gli occhi accompagnati dal labiale del tipo in giacca e cravatta seduto alla sinistra del percorso obbligato. Forfora sulla giacca, tipico.
“Signorì, stu posto è meo, me so’ portata la busta della spesa che alla prossima discesa sale la commare!”, le aveva detto la vecchia rugosa con le mani/vanga quando si era nuovamente voltata alla destra di quell’esposizione da retrobottega di articoli fuori moda e fuori luogo.
Aveva cominciato a sudare e ogni tanto cercava di prendere ossigeno dalla corrente d’aria creata da quei pochi finestrini che non erano stati sigillati e che tagliava il corridoio per la lunghezza, in alto, vicino al soffitto della carrozza. Il sollievo di un istante.
Poi quei due occhi innanzi a sé, contro i quali era sbattuta dopo aver distolto i suoi dalla vecchia. L’avevano fissata. Lui non aveva avuto alcuna espressione, le era scivolato davanti e si era seduto al suo posto, di fronte a lei che era ancora in piedi ferma.
Nel distogliere lo sguardo da quel volto anonimo e nel riportarlo al centro del corridoio, sul vetro della porta della carrozza aveva messo a fuoco la grossa croce nera che era come scarabocchiata sul braccio di quell’individuo. Continuava a vederla, mentre con il pensiero tentava di scavalcarla, di smettere di leggere le scritte nere in latino che adornavano quel braccio come bracciali e rifugiarsi un metro più avanti. Un angolo, un posto libero. Finalmente.
Aveva chiuso gli occhi e guardato di fuori al finestrino.
Ma qualcuno aveva cominciato a parlarle nella testa.
“Memento putei in quattuor taxos”.
Si era voltata di scatto verso sinistra con gli occhi sgranati, ma non c’era nessuno vicino al suo orecchio. Un colpo di sonno. Aveva richiuso gli occhi appoggiando l’orecchio destro ed il capo tra il sedile e il vetro del finestrino, e subito le era apparsa quella croce e alcune lettere “MENTO-TE-IN-TUO”. L’immagine era molto più nitida nel buio rispetto ad un attimo prima, quando era incorniciata dal chiarore della pelle di quel braccio.
Le lettere continuavano a muoversi sino a formare la frase che le era stata sputata nel cervello. Un colpo di sonno enigmistico. Non le era mai accaduto.
Il caldo però aveva avuto il sopravvento sui suoi perché e d’altra parte lei non era molto brava a risolvere enigmi. Di solito barava ai cruciverba, quelle caselle vuote la infastidivano e allora google era sempre l’ultima spiaggia, un’ottima risposta sia in orizzontale che in verticale. Le intersezioni venivano da sé, croci, quattro punte e un centro.
La sua limitata conoscenza della lingua madre dell’italiano le aveva permesso comunque di tradurre quella frase, sebbene il senso vero le risultasse decisamente inafferrabile.
“Ricordati del pozzo fra i quattro tassi”, no: “Voglio solo ricordarmi della spiaggia e del mare”, aveva pensato richiudendo gli occhi, cercando di tuffarsi nuovamente nell’acqua fresca come aveva fatto il giorno prima, l’ultimo giorno di ferie prima di tornare in ufficio e ricominciare i viaggi della speranza in treno. Il buio sembrava essere più fresco della luce e quel finestrino opaco e unto le aveva quasi trasmesso una sensazione di benessere. Forse non lo pulivano dal dieci anni, ma tanto pure il sedile sul quale era seduta sicuramente ospitava oltre lei altri miliardi di organismi nascosti tra la polvere.
“Aria, ho bisogno d’aria, soltanto un po’ di aria”, aveva pensato mentre il treno aveva cominciato a cullarla insieme a tutti gli altri abitanti di quella carrozza.
La stanza era bianca, il pavimento pure, fresco, gelido. Il freddo dai piedi nudi le era salito su per le gambe sino ad arrivarle alle dita delle mani. Aveva mosso le dita della mano destra per capire se fossero le sue. Poi l’aveva guardata la mano destra e aveva riconosciuto quei quattro punti tra il pollice e l’indice. Al centro il quinto punto. Sì, era la sua mano.
“Vuoi aria?”, aveva detto una voce maschile alle sue spalle, “Ecco la tua aria, ti do la mia, te la regalo”!
Una mano le aveva afferrato il collo e le aveva spinto la testa verso il pavimento di ghiaccio sul quale si era aperto il vano di un pozzo nero.
L’acqua le aveva invaso le narici e le orecchie, non c’era aria in bocca, non c’era stato tempo di prenderla. Doveva stare tranquilla, da lì a poco, un istante prima di soffocare avrebbe cominciato a respirare. Accadeva così, durante quei sogni.
“I muri ti guardano, ti osservano, mentre tu soffochi al centro, scava, scava, qui sotto c’è la tua aria ahahahahah!”
La mano l’aveva ripescata strattonandole la testa all’indietro…aria…aria…
La testa le era caduta in avanti con uno scatto, aveva aperto gli occhi mentre respirava affannosamente. Era sudata, appiccicata, terrorizzata.
“Checcazzo di sogno!”, aveva pensato alzandosi e cercando la borsa che aveva stretta nella mano destra. Si era guardata la mano. Dove aveva visto quel tatuaggio che non aveva mai avuto? Si era diretta verso il bagno in equilibrio precario. I jeans le si erano appiccicati alle gambe, erano un tutt’uno con la pelle. La maglietta faceva quasi intravedere il modello di reggiseno, meno male che era nera. Aveva bussato, libero. Era entrata e subito aveva chiuso la porta alle sue spalle, messo la borsa a tracolla per non appoggiarla da nessuna parte. Aveva preso dalla borsa un pacchetto di fazzoletti di carta e con uno aveva spinto il pulsante del rubinetto del lavandino. Allora si era bagnata la faccia, attenta a non toccare gli occhi, rimmel e matita sarebbero colati miseramente. Si era tamponata la faccia con un altro fazzoletto e poi l’aveva usato per abbassare la maniglia della porta del bagno. Aperta la porta si era voltata indietro per lanciare il fazzoletto nel cestino e girandosi aveva sbattuto contro una maglietta altrettanto sudata.
Era di nuovo davanti a lei, quel volto anonimo, senza espressione. Non era riuscita neanche a dire “Scusi”, l’aveva pensato ma non l’aveva detto. Si era appiccicata alla parete per non toccarlo nuovamente ed era strisciata via, di scatto, voltandosi di spalle e dirigendosi verso il suo posto.
“l’anima è crocifissa dal corpo”, quella voce di nuovo, non si era voltata, aveva accelerato il passo per poi sedersi di nuovo in quell’angolo e chiudere gli occhi per non ascoltare.
Dopo poco aveva sentito lo sbattere della porta del bagno e i passi lenti si erano fermati di colpo, non lontano da lei. Il cuore le batteva e gli occhi erano incollati, cercava di non respirare, di non emettere alcun rumore.
“Sono quattro, i guardiani”, aveva sussurrato la voce allontanandosi.
Il treno si era fermato. Un altro carico sul carico. Altro calore. Meno aria da dividersi.
Lei continuava a tenere gli occhi chiusi.
“Prego signora, si sieda”, questa volta lui non aveva parlato a lei, o alla sua testa.
Aveva aperto gli occhi e si era voltata verso il sedile alle sue spalle, cercando di sbirciare indietro, a pochi metri da lei, il dialogo che si stava svolgendo. Era come se dovesse avere la conferma che la voce uscisse dalla bocca di lui e non da quei due occhi inespressivi.
Lui si era alzato dal suo posto e aveva invitato a sedersi la signora di una certa età che era appena salita con il suo ventaglio, in cerca di una sistemazione per non morire in mezzo al corridoio
“Grazie figliolo, che Dio ti benedica!”, aveva detto la vecchia commossa dal gesto.
Lui aveva avuto uno scatto, come se improvvisamente una belva si fosse lanciata dentro il suo corpo, attraversandolo e lui l’avesse vomitata dalla bocca.
“Dio non benedice un cazzooooo!” aveva urlato in faccia alla donna che era rimasta di sasso a fissarlo, cercando di sprofondare nello schienale del sedile impolverato.
Forse il suo cuore avrebbe anche ceduto se lui non si fosse allontanato dal suo volto, per voltarsi intorno velocemente, cercando di catturare tutti gli sguardi che gli si erano appiccicati addosso. Parlava a scatti, con gli occhi sgranati:
“Sono quattro chiodi, quattro, sono quattro, freccia di tasso nel costato, veleno d’albero, morte nell’orecchio, al centro, quattro, sono quattro, sono dentro!”.
Aveva alzato il braccio destro e mostrava a tutti la sua croce.
Si sentiva un ronzio, il ventaglio era caduto a terra e la vecchia muoveva le labbra e, simultaneamente, le dita delle mani congiunte in grembo a recitare un invisibile rosario.
Il pubblico guardava per terra bisbigliando, con l’atteggiamento di chi è colto da improvvisa vergogna al posto di chi dovrebbe vergognarsi.
“Ci mancava solo il pazzo di turno!”, dicevano.
“Biglietti prego!”, la porta della carrozza aveva annunciato il controllore con uno sbuffo soffocato. Pure alla porta mancava l’aria. Il nuovo abitante della carrozza aveva aperto un varco dal quale un soffio di follia era fuoriuscito ed aveva abbandonato quel luogo di calore, rumore, stupore. Anche lei aveva lasciato quello schermo tra i sedili, si era voltata verso il controllore e aveva preso il biglietto dalla tasca interna della borsa.
Il controllore lo aveva vidimato ed aveva proseguito la sua passeggiata di controlli più avanti.
“Favorisca il biglietto”, aveva chiesto il controllore al volto sudato e nuovamente rientrato nell’anonimato.
Nessuna parola, la belva forse era fuoriuscita insieme all’aria, si era ripartita in dosi ed era penetrata nei polmoni degli spettatori. Aria rubata per mancanza.
“Non ha il biglietto?”, aveva chiesto nuovamente il controllore.
Forse gli occhi avevano risposto al posto delle parole.
“E’ pregato di scendere alla prossima”, aveva detto il controllore.
Il treno si era fermato e dopo pochi minuti era ripartito. Aveva lasciato una persona sul binario e lei lo guardava dal vetro allontanarsi piano piano, solo, con la sua croce.
Si era sentita leggera, libera. Aveva ricominciato a respirare.
“Non paga il biglietto d’andata in treno e vince quello di ritorno in manicomio”
Nel pomeriggio di ieri, presso la stazione di Altrove un passeggero diretto verso Altroquando è stato invitato dal controllore a scendere dal treno in quanto non era in possesso del biglietto di viaggio. Nella piccola stazione ferroviaria si è seduto ed è rimasto fermo sulla panchina, sotto il sole a fissare i binari ripetendo continuamente la frase “Ricorda, sono quattro, i guardiani ti guardano”. Una pattuglia ferma al bar della stazione si è avvicinata e, notando un evidente tatuaggio a forma di croce sul braccio destro dello strano individuo, non ha mancato di chiedergli di favorire i documenti.
Poiché la persona in questione continuava a fissare il vuoto ripetendo sempre la stessa frase, è stato scortato presso il comando di polizia più vicino. Dopo qualche telefonata è saltata subito fuori l’identità. Una croce così è facile ritrovarla. Difficile nasconderla.
Il giovane era evaso in mattinata dal manicomio criminale della Capitale.
Un’infanzia difficile. Da bambino era un angelo. Poi i genitori si erano separati e lui aveva sofferto. Allora si era tatuato e da qualche anno aveva cominciato a dare di matto.
I conoscenti lo ricordano come un ragazzo che un attimo prima era capace di fermare le macchine per fare attraversare una vecchietta e un attimo dopo era capace di accoltellare qualcuno perché il distributore di sigarette gli aveva rubato i soldi.
Dopo aver preso a calci alcune macchine parcheggiate, spaccato la testa con una bottiglia ad uno e aver frantumato svariati denti con un calcio ad un altro, l’accoltellamento e la morte dell’accoltellato lo aveva spedito dritto nel carcere dei matti.
Da lì è evaso ieri mattina, dopo aver affogato nel lavandino della sua cella l’infermiere che era entrato per fare l’iniezione di sedativo. Non si sa come abbia fatto imbottito di farmaci, vista la corporatura dell’infermiere armato dell’inseparabile sfollagente. Ha indossato il camice sopra il pigiama ed è riuscito ad oltrepassare il perimetro di guardie armate all’esterno. E’ stata dunque richiesta un’ispezione dell’ospedale e la verifica dei sistemi di sicurezza all’interno e all’esterno del perimetro di contenzione.”
Lei non leggeva i giornali e quell’articolo in terza pagina non lo lesse mai.
Regina Re da "Effetto Munroe"