giovedì 29 dicembre 2022

I’m lost in the supermarket

 



I’m lost in the supermarket 


La lista della spesa ti rappresenta. 

Le mie liste sono per reparto/supermercato. Non puoi avere come primo punto 1) carta igienica. Dipende da dove vai, ma di solito non è mai all'entrata, anche se a mio avviso dovrebbe essere una di quelle cose che trovi sfuse alla cassa prima di pagare: "azz me so' dimenticata la carta igienica!" Prendi un rotolo mentre paghi e metti in tasca. 

A me il supermercato mi rapisce.

Vago con la lista (scritta in note e col telefonino in mano) tra i vari reparti come se fossi al luna park con una mappa in mano. 

Fare la spesa non è buttare quello che capita dentro il carrello. Una buona spesista valuta il rapporto qualità/prezzo/carboidrato/utilità. 

Il prodotto deve "tendere" al naturale (tipo pollo rimpizzato, svaccato e allevato a terra, nel senso che sta spiaccicato a 4 di bastoni perché pesa 20 kg, come il cane mio), il prezzo è buono se c'è l'offerta che ti dà i punti che poi ci devo prendere le padelle stellari), il carboidrato va valutato in quanto iscritta a palestra virtuale, infine l'utilità che sarebbe la valutazione finale. L'utilità è il punto di non ritorno. Una volta aver fatto la dimostrazione della formula del moltiplicatore del reddito, la radice quadrata dell'investimento e la valutazione della collocazione a casa di alcuni articoli la maggior parte delle volte entro in crisi, che non è la crisi economica ma: dove cazzo la metto una canoa in offerta? Ma io non vado in canoa, però potrei regalarla a mio cognato che si compra pure le motozzappette per 1 m di orto! Sí vabbé ma è inverno e il compleanno è ad agosto e poi la scatola si rovina…e poi se non fa canoa? Vabbè non mi serve una canoa. E rifaccio il tragitto al contrario per riparcheggiare il piccolo pacchetto (che però è una canoa ma sta in una confezione che ti aspetti un orologio e poi resti dimmerda pure se fai finta che ti piace) al reparto articoli in offerta. Lì cominci a renderti conto che il tuo carrello è misero rispetto a quello delle famiglie che vanno a fare la spesa in 6. Cioè non sono cariche di prole, ma generalmente queste donne si portano il marito mulo, la suocera (che gli sta sui coglioni ma devono dimostrare la loro abilità nel gestire la dispensa e  l'economia domestica), i figli, il cane e anche il ragazzo di colore che gli ha dato il carrello all'entrata e, diciamo, che l'euro se lo deve “guadagnare”.  Il carrello pare 'na piramide Maya e a me viene subito in mente la scena alla Italian Job ma a posto della mini c'è un carrello della spesa furgonato che sfreccia lungo il corridoio del reparto come una palla da bowling verso la cassa chiusa per mancanza di personale. 

Poi ritorno nel mio corpo e mi metto a studiare la mia lista.


Regina Re

Ipermercati di ipertensione

 




Ipermercati di ipertensione


La complicata visione delle cose deriva da un riflesso distorto di noi stessi. Etichette di contenuti ideologici, di cui zuccheri zero, su prodotti a buon mercato, per spesa on line, che non mi sposto dal divano. 

Chilometri percorsi dentro palestre dall'aria stagnante, su macchine di riduzione, centimetri da buttare insieme alla ritenzione di liquidi antiestetici. Siamo impostati per durare sino a sera, per indossare maschere antirughe e fare i conti con cervelli irriverenti. Per poi chiudere gli occhi e scivolare sul rullo di una cassa, trasportati lentamente, in attesa di un bip di lettura, prima di finire dritti in una busta. 

Ma non importa, quel che conta è avere sempre una scorta.


Regina Re

Schiaccia il serpente

 




Schiaccia  il serpente


L'aria ha cambiato colore 

E mastico sentenze che scorrono

Ma non sento il sapore

Di questo rumore

Una eco d'opinioni che travolgono

Su questo palco fatto di niente

Sento solo questo 

Un assordante vuoto

Riempito di delusione e rabbia

Per le azioni contro i diritti

E le non - azioni a favore

Il non rispetto del valore

È un uomo contro il muro

Evviva l'omertà

Dove la verità non vibra

Dove siamo finiti

Non è una domanda

"Siamo finiti",

Con i nostri valori

Che non contano un cazzo

siamo mezzi uomini

Ognuno con la sua tristezza 

da condividere, o meno

E restare nel mezzo

sempre tristezza è


Regina Re

mercoledì 28 dicembre 2022

La porta alternativa


 



 La porta alternativa 


“Nico esci e chiudi la porta!”, aveva detto il nonno curvo sulle sue carte.

Nico aveva appena varcato la soglia e già si ritrovava fuori, spalle a quella porta, sempre chiusa ai suoi occhi di bambino.

Quello era lo spazio del vecchio, in un’ala della casa che aveva fatto costruire, dove sarebbe dovuta essere la cantina e dove da sempre passava la maggior parte del suo tempo.

Il tempo sembrava fermarsi tra quelle rughe che gli arricciavano la fronte quando era pensieroso. Nico cercava di seguirle con lo sguardo ma queste sparivano quando un pensiero improvviso le rilasciava, e allora il vecchio guardava il bambino con quella strana luce mista di gioia e mistero negli occhi e diceva: “Nico, quando sarai grande, mi verrai a trovare senza dover bussare!”. Il pensiero passava veloce tra gli occhi del vecchio e quelli del bimbo, ma le rughe lo catturavano immediatamente tornando a segnargli il viso e disegnandovi un sorriso compiaciuto. Con quella frase il nonno lo lasciava tra i giochi noiosi e si rifugiava dietro la sua porta.

 

Questa volta Nico non aveva bussato, era entrato e “lui” sembrava essere ancora lì, curvo, con gli occhiali e la sua penna in mano a leggere e scrivere, scarabocchiare, pensare di fronte a quei dati che scorrevano incessantemente sullo schermo. Non si era voltato verso l’intruso e l’intruso non aveva indietreggiato, sebbene gli fosse venuto l’istinto di farlo. La porta era rimasta aperta dietro le spalle dell’ uomo. La stanza profumava ancora di tabacco francese, quello vanigliato che il vecchio usava fumare con la sua pipa, quella scelta tra le tante della sua collezione che era ancora in mostra nella vetrina dietro la scrivania, chiusa alla polvere che imperava in quel luogo in cui il tempo di un bambino era uscito e quello di un uomo vi era entrato.

 

La casa era rimasta chiusa da quando il nonno aveva chiuso la sua porta per sempre. L’aveva riaperta Nico, ora che il nonno aveva aperto la sua porta ed accolto i suoi genitori che a turno avevano deciso di varcare la soglia, sua madre prima, il padre poi.

Il cuore di un uomo non regge all’assenza di una presenza da sempre costante.

Le carte erano ingiallite e ricoprivano ancora la scrivania, in un disordine studiato, in cui nessun foglio era mai posizionato a caso. Il nonno neanche li guardava quando li afferrava e a volte li lanciava dietro di sé dopo averli accartocciati distrattamente. Sembrava che il suo cervello fosse suddiviso in stanze chiuse, ma tutte comunicanti, in qualche maniera.

Mentre Nico osservava ricordando, un foglio tra i tanti aveva catturato la sua attenzione. C’era un disegno, un uomo e un bambino che si tenevano per mano, tra di loro una porta aperta. Il disegno lo avevo regalato lui al nonno ma quella porta non l’aveva mai disegnata. Era scarabocchiata a penna, inchiostro nero e sputate a caso delle lettere e numeri aggiunti intorno.

“2038 P C3 4D - + -“ sotto il disegno, “12-6” sulla sinistra e “6-12” sulla destra. La data di nascita del nonno e quella di Nico.

 

Allora il pensiero improvviso era passato davanti agli occhi dell’uomo e il vecchio non aveva potuto catturarlo tra le sue rughe: “La cassaforte”.

Aveva aperto lo sportello del mobiletto posto in basso, sotto la vetrina delle pipe. 12-6 Sx e 6-12 Dx, scatto. Aveva aperto e tirato fuori quello che sembrava il prototipo di una memosfera, l’aveva presa in mano ricordandosi di quando l’aveva vista la prima volta.

Uno dei tanti giocattolini progettati dal CSA, il centro Sperimentale di Astrofisica che il nonno aveva fondato in giovane età.

Oggi se ne servivano le più alte sfere del mondo politico, militare e scientifico per la custodia delle informazioni alle quali era apposta una classifica di segretezza di livello Segretissimo o Top Secret.

Nico aveva afferrato quella specie di pallina da golf con la mano destra e aveva atteso.

Il tempo che i sensori ad assorbimento termico riattivassero il sistema di riconoscimento del palmo della mano attraverso la scannerizzazione CTV che avrebbe eseguito la lettura e il riconoscimento delle tre linee principali: “Cuore, Testa, Vita”.

L’aveva già tenuta in mano quella volta che il nonno gli aveva permesso di toccarla.

Poi il vecchio l’aveva guardato e di nuovo quell’espressione che ogni volta lo rapiva trasportandolo in altri mondi, forse non troppo lontani. Era tornato con una tavola digitale e gli aveva chiesto di imprimere la sua mano sullo schermo.

Le due mani, le due chiavi d’accesso, quella del vecchio e quella del bambino.

Mentre i ricordi scorrevano davanti ai suoi occhi, il foro di download aveva cominciato ad irradiare i dati e davanti ai suoi occhi una porta luminosa si era aperta mentre la voce riprodotta del nonno diceva: “Ora non devi più bussare, entra.”

La porta si era spalancata tra numeri, lettere che ormai capiva benissimo. Il bambino curioso era ora un astrofisico che si addentrava nella sua eredità di sapere.

 

Sarebbero stati in 16 oltre lui, il suo team di ricercatori al completo, quelli che da anni ormai operavano con Nico nel CSA. Ciò che Nico aveva scoperto andava ben oltre lo spazio e il tempo, poteva muoversi da un punto (P) con una velocità continua, accelerata o discontinua pur rimanendo in quel punto. Partire e tornare senza essere mai partiti, muoversi in qualsiasi direzione stando fermi, in una direzione non direzione, un moto inverso, una velocità negativa (-) che indicava una propagazione superluminare (+), una luce capace di uscire prima di essere entrata, proprio come il bambino sulla soglia del sapere di suo nonno. Il cristallo delle lenti degli occhiali del vecchio rifletteva ora quegli impulsi provenienti dagli occhi di Nico. Una velocità al contrario (C3), 4 Dimensionale, una porta alternativa allo spazio e al tempo, la porta racchiusa tra le mani di un nonno ed un bimbo in un disegno.

 

La porta dell’area riservata del CSA si era chiusa per costruirne un’altra, quella che avrebbe aperto qualsiasi porta e permesso di spostarsi negli universi senza mai dover varcarne la soglia. Nascere prima di morire e morire senza essere mai nati. Uscire senza essere mai entrati, arrivare senza essere mai partiti. Ora il nonno gli intimava di uscire, non dalla porta, per entrare in un tempo in cui nessun bambino avrebbe più dovuto bussare.

 

Anno 2038


Regina Re

martedì 27 dicembre 2022

The way back


 


The way back 


Quando la notte si veste di pioggia 

e i binari sono infiniti

come il tempo che non passa

ma ti trascina via

Quando il passato, che non se ne va

ti sembra obsoleto 

come un’ immagine sfuocata

di cui non distingui i dettagli

Quando un cartello ti dice basta,

è tempo di andare

allora sei cresciuto

e il tuo tempo è tornato

Vado oltre il mio muro

pur non dimenticando

che la diffidenza è la mia forza,

che non temo l’alba

ma sono stanca dei tramonti

Perché la possibilità è un’opzione

e il merito un’occasione

per chi è già caduto

e si sforza di guardare avanti

a testa alta

e ignaro del futuro


Regina Re


lunedì 26 dicembre 2022

La strada di ferro

 



La strada di ferro


Se mi avessero detto che la mia casa non avrebbe avuto sempre un tetto e che il mio letto avrebbe assunto forme diverse, forse avrei preso le mie decisioni per tempo.

Scelte incondizionate non ne avevo mai fatte, niente per niente e avevo ottenuto sempre qualcosa.

Di mia madre ricordo l'odore e quella coperta che tenevo stretta e che sapeva di tutto. La mia famiglia non se la passava bene ed eravamo troppi per tenerci tutti.

Ci chiamavano bastardi anche per gioco, ma non giocavamo poi tanto. Lei non lavorava e badava a noi, lui era fuori tutto il giorno e quando tornava non ci parlava mai. Lei si arrabbiava spesso e quando gridava noi sapevamo dove nasconderci. È facile nascondersi, basta chiudere gli occhi e pensare che nessuno ti possa vedere. Hai mai provato? Puoi infilare la testa in un secchio o metterti una busta in testa e sarai altrove. 

Mi è rimasta questa cosa di strizzare gli occhi quando sento un rumore improvviso, una minaccia di tuono, uno schianto, un colpo inaspettato.

“Hey tu, vai via di qua!”

La gente non ti vuole accanto, si spostano o accennano sguardi di compassione, ma non si fermano.

I bambini sì, loro tendono spesso la mano, ma vengono subito strattonati via da madri che corrono su tacchi invisibili  e che hanno un disco inserito tra le protesi in silicone, come le vecchie bambole di plastica: “Non possiamo aiutare tutti tesoro!”. Ho un'allergia da un po' di tempo e continuo a grattarmi. La dermatite mi distrae dal sonno. Ho tanto sonno. 

Quel giorno dormivo quando tutto divenne notte e poi il giorno cambiò e anche la notte non fu più sonno. 

Non ricordo più il mio nome, se ne ho mai avuto uno, i nomi servono solo a riconoscersi. Io voglio solo conoscere.

Il mondo me lo ero immaginato in una scatola, clak clak, tac, parola magica, il coperchio volava e, shhhh, io ero felice.

Ora non so, ho una illusione di felicità, un baleno immediato che mi percuote, un calore che mi arriva su per gli occhi e poi c'è la strada, guardo solo verso ciò che conosco. La strada mi conferma se sto facendo la cosa giusta. 

“Ciao, come va oggi?”, osservo intorno e un’auto rossa è parcheggiata al solito posto davanti al bar. Devo stare attento, come quella volta che uscirono quei due e quello più grosso se la prese con me.

Lei è Sonya, la vedo quasi tutti i giorni, esce pure lei dal bar e mi porta la colazione. Sonya si ferma qui e aspetta.

“Hey stronza, la finisci di perdere tempo a parlare con questi rifiuti? La bocca usala per fare altro. Forza sali”, ecco lo sapevo che sarebbe arrivato.

Lui è un ciccione pelato che la passa a prendere sempre alla stessa ora e poi la riporta qui davanti al bar a orari diversi. Il ciccione puzza di rancido, lo sento quando si avvicina. C'è sempre qualcun altro in macchina con lui, sul sedile posteriore. Rosso, attento, stai attento. Lei sale e va via. Ogni giorno va via. Non lo so dove va Sonya tutti i giorni. Lei dice che un giorno tornerà dalla sua famiglia, non appena avrà abbastanza soldi. 

Guardo la macchina che si allontana. Non so dove finisca la strada. La strada continua sempre. C'è n'è sempre una dopo un’altra e poi ce ne sono ancora e quando i cartelli sono troppi io torno indietro.

Torno dove conosco. 

Oggi il cielo è forte, pesante come le mie ossa, i giganti d'ovatta si muovono e camminano sopra la mia testa, li osservo mentre avanzano lungo le strade bianche, quelle dritte, anche loro vanno ovunque trascinati dal vento, come le foglie. 

Il mio passatempo preferito è osservare il movimento. Mi piaceva tanto guardare i colori che ruotavano in mezzo all'acqua con le bolle. 

Allora vado dove c'è tanto movimento, dove ci sono colori, dove c'è la strada di ferro. 

Qui il tempo lo trovi su cartelli illuminati, il tempo si trasforma e i numeri scivolano come finestre rotolanti. Le scarpe sfilano sui binari, avanti e indietro, quel laccio sta per sciogliersi, le scarpe salgono e scendono da scatole di sardine unite in fila.

Entro ogni tanto, quando c'è Paolo. 

“Io non ti ho visto ok?”. Fiiiiiii, le porte si chiudono e il mondo scorre. Sono viaggi indimenticabili, almeno sino a quando qualcuno non reclama: “È inammissibile, segnalate a chi di dovere”, e allora Paolo è costretto a farmi scendere. I miei viaggi terminano contro il muro del rifiuto. Solo i rifiuti non si accorgono di me. Damiano divide con me quello che trova. I suoi denti, quelli rimasti, sanguinano spesso da quando prese quella bottiglia in faccia. La notte è una gara per cercare un posto dove stare tranquilli, ma non è sempre così. Quella volta Damiano stava dormendo, dopo quella iniezione, quella che si fa sempre quando sta male e poi sta meglio. Io gli faccio compagnia sino a quando si sveglia. Quella notte presero a calci anche me. Io scappai ma Damiano neanche si svegliò dalla pozza di sangue. 

“Non ci sono posti per noi, mettitelo in testa, noi non dobbiamo vivere ma sopravvivere”, questo mi disse quando ci incontrammo la prima volta. 

A volte ho nostalgia del mio passato ma poi tutto diventa bianco e il bianco non ha colori, non da avvisi. L'odore di candeggina e di sangue arriva improvviso, il rumore del metallo e il freddo dell'acciaio. Le luci a neon si infilano nelle pupille invisibili e tremo. Lamenti silenziosi, nei respiratori, cuori morti ma pulsanti, topi bianchi con gli occhiali. Nessuno può urlare senza corde vocali. Ora sono qui, sono scappato mentre quello strillava col collo insanguinato. Stavano per farlo anche a me. Ero morto per un po', poi di nuovo vivo a metà. L'altra si è sciolta nel terrore, in quel salto nel vuoto, nelle ossa spezzate. Ho mangiato i miei vermi tra gli scarti di carne cruda. 

Mangio spesso quello che la gente non mangia, anche quando ha odore di morte. 

Ma quando la fame è morte nella bocca e morsi di vermi nello stomaco, il sapore ha poca importanza. 

Oramai la gente lascia le buste fuori dai bidoni, alcuni lo fanno per pigrizia, altri per evitare che quelli come me siano costretti a rovistare nella spazzatura per sopravvivere. Nazarena, la vecchia, ogni sera mi lascia un pezzo di pane che si è tolto di bocca. Lo impregna di sugo, così almeno è buono, lo incarta in un tovagliolo di carta e me lo porta. 

Ci sono anche anime dietro i volti senza faccia che vedo ogni giorno. Mostri di indifferenza che ti passano sopra se non ti sposti. Il movimento a volte ti può sorprendere per la violenza dell’impatto: “Dai dai forza, accendi che ci divertiamo!” Ancora ho i segni sul corpo. Fu proprio Nazarena a trovarmi mezzo morto.

Della carne conoscevo solo l’odore e il sapore, sino a quando ho visto anche quel colore.

Rosso, attento, stai attento.

Il rumore metallico mi sveglia ogni volta che il topo con gli occhiali apre la gabbia.

Mi piace pensare che davvero sono riuscito a scappare, ma sono ancora qui.

Ora sono qui. Fisso un punto dove mi sento al sicuro.

Un punto fermo nel tempo.

Le azioni a scadenza si rincorrono, ogni giorno è l'ora come ieri e domani, oggi è la stessa.

La strada la conosco, come se il mio destino fosse al bivio. Il mio destino è un continuo tornare indietro mentre i miei occhi guardano altrove, uno sguardo senza meta. Mi distraggo con un aquilone che volteggia. 

I miei occhi guardano in alto, dove non c'è ieri e domani. Ma solo ora.

E non c'è un tempo che torni mai, né un cane che mi rincorra. 

 

“Che vita da cani”, dite voi, spesso.

No, vi sbagliate perché siete voi i randagi ed io la mia vita la pensavo diversa.


Regina Re

giovedì 22 dicembre 2022

Si survey chi può


 


Si survey chi può.


1. E’ il caos che avanza o il caso che è fermo in attesa?


La domanda mi lascia interdetta, la salto come faccio spesso quando non so cosa rispondere. 

Il tempo ora non mi manca più. Mi lasciano il tempo che voglio. Ora sono io a decidere.


“Signora si metta in fila e rispetti la distanza”. La cassiera passa la tessera fedeltà, sfilo la carta di credito anche se l’importo e`molto basso, non voglio contatti con i contanti, digito il pin e scorro piu`avanti, come i pezzi sul rullo della cassa. Una volta sognavo l’addetto alle buste della spesa, come quello che avevo trovato nell’anno 1999 alla cassa del Safeway a San Francisco, nel quartiere dell’arcobaleno. Allora apettavo il 2000. 

Oggi, 21 anni dopo, non si può aspettare, paghi, riempi il carrello e vai fuori ad impachettarti la spesa come ti pare, anche in ordine alfabetico. Smalto e rossetto sono un vago ricordo di quando non avevi problemi a tossire in pubblico. Ora sono tutti DOC, che non e`l’etichetta di un vino pregiato ma un distubo ossessivo compulsivo dettato dalle nuove norme igieniche visibili ovunque. 

Peccato non ci sia più neanche il tizio che ti sblocca il carrello al parcheggio del supermercato. Siamo soli, tra i vari reparti, a misurare la distanza. Come se prima la distanza non ci fosse mai stata, quando il tossico dormiva per strada e magari era pure morto e gli passavamo accanto facendo finta di niente, mentre passeggiavamo nei nostri giardini d’amianto.

Quando non sapevamo neanche cosa fossero le RSA e i vecchi erano solo dei rompicoglioni e pagavamo gente per assisterli in ospedale invece di dargli una parola di conforto.

Ora no. Tutti i mali sociali sono sotto la lente di ingrandimento, sappiamo come si lavano correttamente le mani e piangiamo i nostri morti e partecipiamo ai loro funerali on line, denunciando una solitudine che per anni abbiamo rincorso.


“Ciao nonna, come stai?” Ha 94 anni e ci seppellirà tutti, ma lei è fortunata, sono secoli che vive in quarantena, segue le messe in televisione e ogni giorno è circondata da figli, nipoti e pronipoti. Non le va di uscire e si concentra sulle lavatrici da fare, i panni da stendere in un certo modo, che poi non occorre stirarli, basta piegarli nel modo giusto. Ci stressa dalla mattina alla sera ma finchè lo fa sappiamo che sta bene, nonostante gli acciacchi che ha da quando ho memoria.

I genitori invecchiano, i nonni no perchè vecchi lo sono da sempre.

Ma tanto della città le sono sempre interessati soltanto la chiesa e il cimitero, per questo forse non esce più. Il figlio lo può piangere ogni giorno anche da casa e la comunione la domenica gliela portano in cucina. Il suo mondo è lì. La bacio sulla testa, anche se è vietato. Lei mi guarda e mi sorride, tanto lo sappiamo soltanto io e lei.


Mi hanno appena chiesto di scrivere un racconto urbano ma non posso. Un racconto non può essere solo introspettivo, ci vuole il diagolo altrimenti rompe il cazzo. Nessuno vuole leggere i tuoi discorsi mentali e oggi è richiesta la sintesi, testi brevi e concisi. I tuoi milioni di follower mettono cuori se abini una frase ad un tuo selfie, cazzo gli interessa di di ciò che pensi? Occorre saper stupire, non importa come, l’inaspettato ti rende l’eroe del giorno, il successo dipende da quante persone raggiungi e da quante sei seguito. 

Che poi che cosa seguano non si sa. 

Una colata di cemento ci ha resi suburbani e subumani. Il mondo ha cambiato colore e i rifiuti tossici sono sepolti sottoterra mentre sopra c’è aria che non inquina più ma nasconde soltanto un nemico invisibile. 

Un tempo c’era anche l’odio, quello me lo ricordo bene, quando eravamo tutti ammassati dentro un treno e la gente puzzava e la odiavi, sticazzi dell’orientamento al prossimo, dell’intercultura e dell’integrazione. Se puzzava puzzava. L’altro occupava solo uno spazio, limitando il tuo e togliendoti aria, aria che sapeva di tutto fuorché di ossigeno. 

Oggi l’odio non c’è più, in pochi mesi è sparito e nel mondo siamo tutti uguali e con il pugno verso il cielo gridiamo un nome che comprende tutti, anche la gente dimmerda. 

Come faccio io ora a parlare del cemento nel quale sono nata? Come faccio a dirvi che il verde non è il mio colore preferito? E che ho appena letto apocalittico invece che apostolico?

L’attitudine mentale cambia il mondo, perchè in realtà il mondo non è mai cambiato. 

Se non fosse per gli animali da balcone e per le pubblicità che ora dalla cascina del mulino bianco sono passate alla fattora in cucina, dove la famiglia ha ristrovato se stessa nonostante la mancanza di spazi. Anche quando i membri sono animali a due zampe.

Soltanto il mio di mondo non è più come prima.

Le nostre maschere non spaventano più e puoi girare anche con il casco in testa, non importa più a nessuno che tu non sia riconoscibile e a te sta anche bene, quando vuoi soltanto nasconderti.


2. Pensi mai al passato?


Questa domanda non mi turba e scrivo: “Sì , certo, penso al passato perchè non vedo futuro.” “Dov’è il futuro. Dov’èèèèè???? Me lo vuoi dire, cazzo, dove sta?”. 

Grido, come se un questionario potesse rispondermi. Il cane si alza e abbaia con la coda in alto ferma. Gli faccio un cenno di stop con la mano aperta e lei smette di abbaiare e si sdraia di nuovo vicino ai miei piedi.

Io mi alzo dalla sedia, mi devo calmare altrimenti poi arrivano, se percepiscono qualche sbalzo d’umore.

Ci ho appena pensato al passato, non troppo lontano. 

Da allora scrivo solo risposte a domande. 


È passato un anno da quando il nostro Premier annunciò i test di massa gratuiti per tutti. Bisognava decidere se le scuole potessero essere riaperte in sicurezza. Le attività piano piano avevano ripreso, un po’ alla volta, dopo il lock down.

Il risultato andò oltre l’immaginario, visto che quasi tutti risultarono essere entrati in contatto con il nemico. L’unico nemico con il quale il mondo continua ancora a combattere, nell’attesa che il prossimo vaccino funzioni.

Tutte bufale, fake news, una dietro l’altra, pagliacciate abilmente montate, una valanga di soldi investiti nella ricerca e ora in tasca a chissa`chi. Un fallimento totale.

Il risultato? Io qui chiusa, come i carcerati.

Perchè non mi sono ancora ammalata, perchè non ho anticorpi e sono un Tipo 1. Da quando avevo 6 anni. Un’altro nemico invisibile. Il diabete.

Ora ne ho 46 e da 5 anni vivo con un DAD, che non è quello che pensano tutti coloro che si sono ostruiti la bocca con la nuova istruzione, ma è un Diabetic Allert Dog, oltre che una femmina di border collie attenta a tutto e soprattutto a me.

Uno dei pochi cani sentinella rimasti, perchè oramai ci si affida soltanto agli scanner per qualsiasi cosa. Ma io resto fedele a lei, per non dimenticare chi sono.

O almeno cosa ero prima di restare confinata in un angolo di città che da un anno non so più com’è.

La città fantasma si è ripopolata in fretta durante la fase 2. Ne sono seguite altre di fasi di cui ho perso il conto visto che la mia libertà è ancora nella fase x.


3. Hai la possibilità di scrivere ciò che vuoi per un massimo di 2000 caratteri compresi gli spazi. Cosa scriveresti?


“Questa volta hai superato il test. Hai affrontato l’isolamento e hai avuto pazienza ma soprattutto hai seguito le regole.

È solo una questione di controllo, l’autocontrollo che non tutti hanno. Anche un piccolo difetto può essere la tua salvezza. Ciò che ti ha cambiato la vita te l’ha anche salvata. Hai presente “The Cube?”, ecco pensa a chi è riuscito ad uscirne vivo. La tua debolezza che ti mette a rischio ogni giorno ora è la tua forza.

Sei stata selezionata, insieme ai pochi altri che come te non hanno sviluppato anticorpi. 

Sei entrata a far parte di un programma militare. 

Il futuro non sarà lungo per molti. Sappiamo che il virus tornerà e purtoppo abbiamo scoperto che andrà a cercare coloro che ha già trovato. Sarà diverso e peggiore. Gli anticorpi sono segni che lascia per riconoscere dove e con chi è già entrato in contatto e ha lasciato una parte di sé nascosta. Una parte che non è morta ma deve soltato essere riattivata, dove sarà più facile per esso crescere e diventare più forte. Dove le persone sono troppo sicure di non aver più bisogno di precauzioni. Le stesse persone che non seguendo le disposizioni all’inizio si sono infettate ed hanno generato la pandemia globale. Una crescita esponziale di superficialità, presunzione ed arroganza. I virus peggiori del mondo.

Doveva essere un esperimento e invece è diventato un inferno nel quale stiamo cercando di salvare il salvabile. Prepara una borsa con poche cose. Verranno con un furgone DHL. Prepara anche il tuo cane”.


Metto un punto e sono decisamente entro i limiti  imposti al mio pensiero. 

Poi aggiungo: “Forse domani andrò al 41bis.”


Di Regina Re


Per i complottisti ed esperti di teorie al mentolo, per gli opinionisti da tastiera si precisa che ogni riferimento a persone e fatti è frutto di pura fantasia.


martedì 20 dicembre 2022

ESP

 




“ESP”


C’è chi crede nell'esistenza di alcune porte.

Io personalmente non ci ho mai creduto, sino a quando mi sono trovata ad aprirne una.

“La casa è in pietra viva, circa tre piani, dietro c’è un bosco e sulla destra , proprio ai piedi della casa, scorre un torrente. E` notte e sono dentro la casa, al terzo piano, non vedo mobili ma soltanto mia cognata Stella, la sorella di mio marito, in vestaglia da notte.

E` incinta del terzo figlio, al settimo mese di gravidanza. Piange disperata di fronte ad una finestra spalancata ed io sento ciò che prova. So che le è morto il marito e lei non può continuare a vivere. Mi guarda e capisco che quella è l’unica soluzione, e non la fermo. Si getta dalla finestra. La scena cambia ma è ancora notte, sono in strada e c’è una processione. Io e lei camminiamo, mano nella mano.”

Mi sveglio, sono le 23.40 circa di una notte di giugno o luglio, non ricordo. Anno 2007.

Il mattino seguente chiamo mia cognata per sapere come sta e se ha avuto qualche problema. 

Ma sia lei, la bambina che aspetta e suo marito stanno bene.

Vado in ufficio. Nel tardo pomeriggio, prima di andare a casa mia, passo a trovare i miei nonni. 

Sono molto stanca e mi siedo sul divano, in cucina, mentre mia nonna mi parla e mio nonno ascolta la televisione ad un volume inaccettabile. La televisione è sempre accesa nella cucina e la puoi ascoltare da qualunque stanza della casa e anche del giardino. Mio nonno non sente comunque ma la guarda. Spesso la guardo distrattamente mentre mi parlano ma non vedo e non ascolto. Questa volta non rispondo a mia nonna che mi sta rincoglionendo. Sono le ultime notizie del TG che è già cominciato, sotto lo schermo scorrono veloci parole che non leggo perché sto guardando quell'immagine, la casa nel bosco con il torrente. Sono impietrita mentre ascolto la voce che dice: “Si è gettata nel torrente con il bambino di 7 mesi”. 

Vado su Internet e trovo la notizia: “Al Nord, la scorsa notte, intorno alle 23.30, una donna si è gettata alle dalla finestra della sua casa con il bimbo di 7 mesi tra le braccia. Aveva perso il marito da poco e non ha retto al dolore.”

Ci sono porte che si chiudono, nella notte, mentre il cervello filtra detriti purificando il liquido del torrente che scorre veloce nella breve vita del nostro giorno. 

Ci sono luoghi sconosciuti in cui abbiamo sempre abitato, ci sono costruzioni in pietra viva e ci sono pietre che costruiscono la nostra vita. Ci sono piani senza stanze e stanze con piani diversi, dimensioni collegate da finestre che ci chiamano, non appena la porta della nostra distrazione si chiude silenziosamente alle nostre spalle. 

Siamo al terzo piano e non c’`e tempo né parole per descriverlo.

Ci sono soltanto i nostri occhi a percepire distrattamente le immagini di un televisore acceso, a volume massimo.


Regina Re

lunedì 19 dicembre 2022

Blu petrolio o verde?


 


Blu petrolio o verde?

 

Non te lo scrivono tra pesi e misure quando nasci

non è contemplato tra gli strilli di un neonato

neppure la circonferenza della testa

che è coraggio in centimetri

di un cervello che già pensa

e mette piede sulla terra

le urla non sono petrolio

che è natura coperta

ricca e nera

che dorme 

e aspetta l'uomo

per esplodere

scende nero, goccia a goccia

una doccia oleosa

che idrata la pelle

il petrolio è nero blu o verde?

io il petrolio ce l'ho dentro 

ma non aspetto un uomo

Aspetto solo il momento.


Regina Re

sabato 17 dicembre 2022

Porta guasta

 



Porta guasta


Mi chiedo come mai la gente si affanni così tanto per non perdere un treno. Non parlo del treno della vita, la tua unica opportunità di sfoderare un talento (che se sei convinto ma poi non ce l'hai è meglio che il treno lo perdi), la donna o l'uomo della tua vita (che poi temandaaffanculo e il treno te passa sopra comunque), il lavoro che sogni sin da bambino (sì, diciamo che 'sti sogni si evolvono crescendo, dall'astronauta al calciatore, dal pilota F1 al pilota PS4, dalla parrucchiera della Barbie alla Barbie con le extentions e tanti altri sogni dimenticati perché in realtà poi la gente si stufa perché vorrebbe tutto e subito e per i sogni ci vuole tempo). 

No, io parlo proprio di un treno, quello che arriva sempre in ritardo tranne quando lo stai a perdere, quello che se è già arrivato c'è sempre il tizio in giacca e cravatta che parte da un km di distanza correndo per 1000 m  i 100 m olimpionici e ci impiega davvero 10 secondi ad arrivare coi polmoni in mano davanti alla porta che è chiusa, allora prede a pugni il pulsante verde che non si accende e invece di cambiare porta (perché il treno è ancora fermo) continua a prende a capocciate il pulsante verde, senza aimé notare che c'è un cartello appiccicato con lo scotch: "Porta guasta". Questi sono i momenti in cui l'uomo capisce che non è vero che i treni passano una volta sola e checcazzo succede se prendi quello dopo?


Regina Re

domenica 11 dicembre 2022

Future proche

 



Future proche


hey amico, mica ci avevano avvertito

che quel lampo nei nostri occhi

era vita e non paura

hey amico, mica l'avevamo capito

che il sangue sale al petto

quando l'amore diventa rabbia

hey amico mica ci avevano detto

che la chimica non è solo formule

che la matematica è un'opinione

che la poesia non è memoria

è carne

non solo parole

hey amico il nostro futuro è qui

la banca ci spalanca le porte

la firma in basso a destra

e piove e cadono soldi dal cielo

il futuro è meno nero

ora che hai imparato la formula

di un moltiplicatore

il tuo futuro è nel reddito

la cura di un debito

e gli interessi in una flebo


Regina Re

sabato 10 dicembre 2022

Giardini d’amianto

 




Giardini d'amianto 


Perché il grigio chiaro sfuma solo nel fumo delle Camel, light 

che la leggerezza è l'illusione di un elefante che si crede una libellula

Sono nata tra il cemento di un paese/dormitorio che continua a non svegliarsi

dove la pioggia è predisposizione genetica

un trend di precipitazioni costanti 

e l'umore un'altalena

di alti e bassi

che spingo con forza

e che dal cielo

sempre indietro mi riporta.


Regina Re


Ho perso il cielo

 


Ho perso il cielo


Sospesi tra l'eterno tendere

e il mai arrivare

restiamo,

prigionieri di gabbie aperte

dove le piume si staccano

e cadono,

stanche di ali scarne

Gli uccelli non amano volare

se sono già caduti 

almeno una volta,

se hanno perso il cielo

e il desiderio è troppo in alto,

lontano dalla terra

e impresso in uno schianto


Regina Re



sabato 3 dicembre 2022

Free time


 

Free time


There's a time hidden 

beyond the landscape

There's a perimeter

Well defined, by a fancy tiny light

A dark shadow is filled 

by fluid emptiness

Just for a while,

From time to time

They're all and holes

At each single step

Which stresses and rests

But you're at the end

Of this floating land

When the sun is setting

Where a moon is waiting 

For a huge and lonely sky 

Feel free tomorrow

That's the real dream 

At the next time line


Regina Re

Bang


 

Bang


C'è sempre un canale aperto

Una sensazione di voce che non tace

Ci sono giorni che hanno l'ansia di ieri

E notti che si adattano al domani

C'è sempre un ricordo da ascoltare

E fare finta di niente

Per potersi perdonare

Quei fogli bagnati da mille parole

Che fanno il giro, e se ne vanno

Non tornano

Si perdono

Si cercano

E poi ti trovano

E ti mangiano il cuore

E ti restano attaccate

Puntate addosso, come pistole


Regina Re

venerdì 2 dicembre 2022

In un mondo di incompetenze

 



In un mondo di incompetenze


La fortuna è non vincere mai niente

e restare nei tuoi panni sinceri

che lo stile lo fa il tuo cuore

il carattere non è una confezione

meglio una borchia 

che una firma d’oro 

che si stacca

senza anima

E se vuoi essere popolare

stai con chi non lo è

che il rumore di un applauso

è il silenzio di una bugia

e invece una madre che strilla

urla amore

Ma ormai compriamo solo su carta

case di ovatta

con pareti antistaminiche

che la noia invade i soffitti

È sempre colpa della crisi

se l’allergia al lavoro

affossa i divani

Ma intanto aumentano le vendite

e il PIL e i PIN

e le richieste d’amicizia

e i finanziamenti per la fiducia

che vogliamo subito

e poi la ridiamo indietro

in comode rate 

e tanti interessi


Regina Re

domenica 27 novembre 2022

Parlandoti

 



Parlandoti


A volte penso 

che vorrei tanto 

entrare nelle teste

per uscire da uno stato

che mi prende

quando la gente si perde

e ci sono vie

che separano mondi...

e vorrei capire come

trovarti tra i muri 

vorrei una voce diversa

e parole adatte

per dirti di restare

vorrei capire

dove sono e perché

poi ci penso bene

e mi rendo conto

che è un bene non capire

e la non comprensione

è un lusso

ti risparmia la delusione

e il sapore del disgusto.


Regina Re

giovedì 24 novembre 2022

V per




 V per


Vendetta.

Scopo o ragione.

Il principio della fine

di una statica azione

Un ricco piatto

e un forte digestivo

Non so.

Ma ti mantiene vivo.

Un ricordo mangia il presente

e il domani si attende

mentre ti ammiri

in uno specchio di conseguenze

sognando circostanze

luoghi comuni

discorsi mai percorsi

cammini mai intrapresi

e pensieri scoscesi

di una vanità in offerta

perfetta

su tacchi d'ansia

e makeup da valletta.


Regina Re

martedì 22 novembre 2022

Memento



Memento 

Era salita sul treno proprio nell’attimo in cui udiva il segnale del capo stazione e le porte automatiche avevano emesso lo sbuffo che preannuncia la loro chiusura.

Aveva la borsa a tracolla e subito l’aveva sfilata per sentirsi meno soffocare dal caldo che stagnava all’interno della carrozza e che si avvolgeva intorno alla sua testa come una busta di plastica, che si gonfiava davanti alla sua bocca quando questa riusciva ad emettere soffi di anidride carbonica. L’ossigeno sembrava non essere incluso nel biglietto e probabilmente aveva pagato soltanto per quel pietoso affanno dovuto alla folle corsa. Aveva subito cominciato a guardarsi intorno per cercare un posto libero e si era ritrovata a fissare sguardi di pendolari che penzolavano intorno, che si muovevano a ritmo della carrozza, cullati dai rumori e dagli schianti che giungevano dal pavimento plastificato.

Era solita osservarli e scovare dietro il loro sguardo i loro pensieri appartenenti ad una cavalleria scadente, cavalieri senza nome e senza terra ma con un unico possedimento: Il posto. Camminava al centro dello stretto corridoio alternando sguardi da sinistra a destra e da destra a sinistra, come durante la visione di una partita di tennis, in cerca di un posto dove gettarsi.

“Puzzo, non ti sedere, così sto più comodo”, le avevano detto gli occhi del ciccione sudato alla destra del corridoio.

“Sei proprio una gnocca, dai siediti, così mentre tu guardi fuori dal finestrino io mi ti guardo le tette un pochettino!” , le avevano detto gli occhi accompagnati dal labiale del tipo in giacca e cravatta seduto alla sinistra del percorso obbligato. Forfora sulla giacca, tipico.

“Signorì, stu posto è meo, me so’ portata la busta della spesa che alla prossima discesa sale la commare!”, le aveva detto la vecchia rugosa con le mani/vanga quando si era nuovamente voltata alla destra di quell’esposizione da retrobottega di articoli fuori moda e fuori luogo.

Aveva cominciato a sudare e ogni tanto cercava di prendere ossigeno dalla corrente  d’aria creata da quei pochi finestrini che non erano stati sigillati  e che tagliava il corridoio per la lunghezza, in alto, vicino al soffitto della carrozza. Il sollievo di un istante.

Poi quei due occhi  innanzi a sé, contro i quali era sbattuta dopo aver distolto i suoi dalla vecchia. L’avevano fissata. Lui non aveva avuto alcuna espressione, le era scivolato davanti e si era seduto al suo posto, di fronte a lei che era ancora in piedi ferma.

Nel distogliere lo sguardo da quel volto anonimo e nel riportarlo al centro del corridoio, sul vetro della porta della carrozza aveva messo a fuoco la grossa croce nera che era come scarabocchiata sul braccio di quell’individuo. Continuava a vederla, mentre con il pensiero tentava di scavalcarla, di smettere di leggere le scritte nere in latino che adornavano quel braccio come bracciali e rifugiarsi un metro più avanti. Un angolo, un posto libero. Finalmente.

Aveva chiuso gli occhi e guardato di fuori al finestrino.

Ma qualcuno aveva cominciato a parlarle nella testa.

 

“Memento putei in quattuor taxos”.

Si era voltata di scatto verso sinistra con gli occhi sgranati, ma non c’era nessuno vicino al suo orecchio. Un colpo di sonno. Aveva richiuso gli occhi appoggiando l’orecchio destro ed il capo tra il sedile e il vetro del finestrino, e subito le era apparsa quella croce e alcune lettere “MENTO-TE-IN-TUO”. L’immagine era molto più nitida nel buio rispetto ad un attimo prima, quando era incorniciata dal chiarore della pelle di quel braccio.

Le lettere continuavano a muoversi sino a formare la frase che le era stata sputata nel cervello. Un colpo di sonno enigmistico. Non le era mai accaduto.

Il caldo però aveva avuto  il sopravvento sui suoi perché e d’altra parte lei non era molto brava a risolvere enigmi. Di solito barava ai cruciverba, quelle caselle vuote la infastidivano e allora google era sempre l’ultima spiaggia, un’ottima risposta sia in orizzontale che in verticale. Le intersezioni venivano da sé, croci, quattro punte e un centro.

La sua limitata conoscenza della lingua madre dell’italiano le aveva permesso comunque di tradurre quella frase, sebbene il senso vero le risultasse decisamente inafferrabile.

“Ricordati del pozzo fra i quattro tassi”, no: “Voglio solo ricordarmi della spiaggia e del mare”, aveva pensato richiudendo gli occhi,  cercando di tuffarsi nuovamente nell’acqua fresca come aveva fatto il giorno prima, l’ultimo giorno di ferie prima di tornare in ufficio e ricominciare i viaggi della speranza in treno. Il buio sembrava essere più fresco della luce e quel finestrino opaco e unto le aveva quasi trasmesso una sensazione di benessere. Forse non lo pulivano dal dieci anni, ma tanto pure il sedile sul quale era seduta sicuramente ospitava oltre lei altri miliardi di organismi nascosti tra la polvere.

“Aria, ho bisogno d’aria, soltanto un po’ di aria”, aveva pensato mentre il treno aveva cominciato a cullarla insieme a tutti gli altri abitanti di quella carrozza.

 

La stanza era bianca, il pavimento pure, fresco, gelido. Il freddo dai piedi nudi le era salito su per le gambe sino ad arrivarle alle dita delle mani. Aveva mosso le dita della mano destra per capire se fossero le sue. Poi l’aveva guardata la mano destra e aveva riconosciuto quei quattro punti tra il pollice e l’indice. Al centro il quinto punto. Sì, era la sua mano.

“Vuoi aria?”, aveva detto una voce maschile alle sue spalle, “Ecco la tua aria, ti do la mia, te la regalo”!

Una mano le aveva afferrato il collo e le aveva spinto la testa verso il pavimento di ghiaccio sul quale si era aperto il vano di un pozzo nero.

L’acqua le aveva invaso le narici e le orecchie, non c’era aria in bocca, non c’era stato tempo di prenderla. Doveva stare tranquilla, da lì a poco, un istante  prima di soffocare avrebbe cominciato a respirare. Accadeva così, durante quei sogni.

“I muri ti guardano, ti osservano, mentre tu soffochi al centro, scava, scava, qui sotto c’è la tua aria ahahahahah!”

La mano l’aveva ripescata strattonandole la testa all’indietro…aria…aria…

 

La testa le era caduta in avanti con uno scatto, aveva aperto gli occhi mentre respirava affannosamente. Era sudata, appiccicata, terrorizzata.

“Checcazzo di sogno!”, aveva pensato alzandosi e cercando la borsa che aveva stretta nella mano destra. Si era guardata la mano. Dove aveva visto quel tatuaggio che non aveva mai avuto? Si era diretta verso il bagno in equilibrio precario. I jeans le si erano appiccicati alle gambe, erano un tutt’uno con la pelle. La maglietta faceva quasi intravedere il modello di reggiseno, meno male che era nera. Aveva bussato, libero. Era entrata e subito aveva chiuso la porta alle sue spalle, messo la borsa a tracolla per non appoggiarla da nessuna parte. Aveva preso dalla borsa un pacchetto di fazzoletti di carta e con uno aveva spinto il pulsante del rubinetto del lavandino. Allora si era bagnata la faccia, attenta a non toccare gli occhi, rimmel e matita sarebbero colati miseramente. Si era tamponata la faccia con un altro fazzoletto e poi l’aveva usato per abbassare la maniglia della porta del bagno. Aperta la porta si era voltata indietro per lanciare il fazzoletto nel cestino e girandosi aveva sbattuto contro una maglietta altrettanto sudata.

Era di nuovo davanti a lei, quel volto anonimo, senza espressione. Non era riuscita neanche a dire “Scusi”, l’aveva pensato ma non l’aveva detto. Si era appiccicata alla parete per non toccarlo nuovamente ed era strisciata via, di scatto, voltandosi di spalle e dirigendosi verso il suo posto.

“l’anima è crocifissa dal corpo”, quella voce di nuovo, non si era voltata, aveva accelerato il passo per poi sedersi di nuovo in quell’angolo e chiudere gli occhi per non ascoltare.

Dopo poco aveva sentito lo sbattere della porta del bagno e i passi lenti si erano fermati di colpo, non lontano da lei. Il cuore le batteva e gli occhi erano incollati, cercava di non respirare, di non emettere alcun rumore.

“Sono quattro, i guardiani”, aveva sussurrato la voce allontanandosi.

Il treno si era fermato. Un altro carico sul carico. Altro calore. Meno aria da dividersi.

Lei continuava a tenere gli occhi chiusi.

 

“Prego signora, si sieda”, questa volta lui non aveva parlato a lei, o alla sua testa.

Aveva aperto gli occhi e si era voltata verso il sedile alle sue spalle, cercando di sbirciare indietro, a pochi metri da lei, il dialogo che si stava svolgendo. Era come se dovesse avere la conferma che la voce uscisse dalla bocca di lui e non da quei due occhi inespressivi.

Lui si era alzato dal suo posto e aveva invitato a sedersi la signora di una certa età che era appena salita con il suo ventaglio, in cerca di una sistemazione per non morire in mezzo al corridoio

“Grazie figliolo, che Dio ti benedica!”, aveva detto la vecchia commossa dal gesto.

Lui aveva avuto uno scatto, come se improvvisamente una belva si fosse lanciata dentro il suo corpo, attraversandolo e lui l’avesse vomitata dalla bocca.

“Dio non benedice un cazzooooo!” aveva urlato in faccia alla donna che era rimasta di sasso a fissarlo, cercando di sprofondare nello schienale del sedile impolverato.

Forse il suo cuore avrebbe anche ceduto se lui non si fosse allontanato dal suo volto, per voltarsi intorno velocemente, cercando di catturare tutti gli sguardi che gli si erano appiccicati addosso. Parlava a scatti, con gli occhi sgranati:

“Sono quattro chiodi, quattro, sono quattro, freccia di tasso nel costato, veleno d’albero, morte nell’orecchio, al centro, quattro, sono quattro, sono dentro!”.

Aveva alzato il braccio destro e mostrava a tutti la sua croce.

Si sentiva un ronzio, il ventaglio era caduto a terra e la vecchia muoveva le labbra e, simultaneamente, le dita delle mani congiunte in grembo a recitare un invisibile rosario.

Il pubblico guardava per terra bisbigliando, con l’atteggiamento di chi è colto da improvvisa vergogna al posto di chi dovrebbe vergognarsi.

 “Ci mancava solo il pazzo di turno!”, dicevano.

 

“Biglietti prego!”, la porta della carrozza aveva annunciato il controllore con uno sbuffo soffocato. Pure alla porta mancava l’aria. Il nuovo abitante della carrozza aveva aperto un varco dal quale un soffio di follia era fuoriuscito ed aveva abbandonato quel luogo di calore, rumore, stupore. Anche lei aveva lasciato quello schermo tra i sedili, si era voltata verso il controllore  e aveva preso il biglietto dalla tasca interna della borsa.

Il controllore lo aveva vidimato ed aveva proseguito la sua passeggiata di controlli più avanti.

“Favorisca il biglietto”, aveva chiesto il controllore al volto sudato e nuovamente rientrato nell’anonimato.

Nessuna parola, la belva forse era fuoriuscita insieme all’aria, si era ripartita in dosi ed era penetrata nei polmoni degli spettatori. Aria rubata per mancanza.

“Non ha il biglietto?”, aveva chiesto nuovamente il controllore.

Forse gli occhi avevano risposto al posto delle parole.

“E’ pregato di scendere alla prossima”, aveva detto il controllore.

Il treno si era fermato e dopo pochi minuti era ripartito. Aveva lasciato una persona sul binario e lei lo guardava dal vetro allontanarsi piano piano, solo, con la sua croce.

 

Si era sentita leggera, libera. Aveva ricominciato a respirare.

 

“Non paga il biglietto d’andata in treno e vince quello di ritorno in manicomio”

 

Nel pomeriggio di ieri, presso la stazione di Altrove un passeggero diretto verso Altroquando è stato invitato dal controllore  a scendere dal treno in quanto non era in possesso del biglietto di viaggio. Nella piccola stazione ferroviaria si è seduto ed è rimasto fermo sulla panchina, sotto il sole a fissare i binari ripetendo continuamente la frase “Ricorda, sono quattro, i guardiani ti guardano”. Una pattuglia ferma al bar della stazione si è avvicinata e, notando un evidente tatuaggio a forma di croce sul braccio destro dello strano individuo, non ha mancato di chiedergli di favorire i documenti.

Poiché la persona in questione continuava a fissare il vuoto ripetendo sempre la stessa frase, è stato scortato presso il comando di polizia più vicino. Dopo qualche telefonata è saltata subito fuori l’identità. Una croce così è facile ritrovarla. Difficile nasconderla.

Il giovane era evaso in mattinata dal manicomio criminale della Capitale.

Un’infanzia difficile. Da bambino era un angelo. Poi i genitori si erano separati e lui aveva sofferto. Allora si era tatuato e da qualche anno aveva cominciato a dare di matto.

I conoscenti lo ricordano come un ragazzo che un attimo prima era capace di fermare le macchine per fare attraversare una vecchietta e un attimo dopo era capace di accoltellare qualcuno perché il distributore di sigarette gli aveva rubato i soldi.

Dopo aver preso a calci alcune macchine parcheggiate, spaccato la  testa con una bottiglia ad uno  e aver frantumato svariati denti con un calcio ad un altro, l’accoltellamento e la morte dell’accoltellato lo aveva spedito dritto nel carcere dei matti.

Da lì è evaso ieri mattina, dopo aver affogato nel lavandino della sua cella l’infermiere che era entrato per fare l’iniezione di sedativo. Non si sa come abbia fatto imbottito di farmaci,  vista la corporatura dell’infermiere armato dell’inseparabile sfollagente. Ha indossato il camice sopra il pigiama ed è riuscito ad oltrepassare il perimetro di guardie armate all’esterno. E’ stata dunque richiesta un’ispezione dell’ospedale e la verifica dei sistemi di sicurezza all’interno e all’esterno del perimetro di contenzione.”

 

Lei non leggeva i giornali e quell’articolo in terza pagina non lo lesse mai.


Regina Re da "Effetto Munroe"

lunedì 21 novembre 2022

Pelle


 


Pelle


Sento una melodia stonata

un sottofondo senza fine

un vortice che lento avanza

trascinandomi al confine


sento ossa e carne in mezzo

e il sangue che si muove

e affoga il mio cervello

ma non sento il cuore


quello ora non lo sento

sento un limite sottile

che pesa come cemento

e apre crepe infinite

Regina Re

Memoria di latta


 Memoria di latta


Mi prudono le mani ma non c'è niente tra le dita

giro i palmi e cammino sulle strade, disegnate

Felicità, cuore-testa-intuito,

destino e vita

Trovo i ricordi tra le rughe dell' infanzia

una lattina e il profumo dell' ovomaltina

una minuscola cicatrice tra il pollice e l'indice 

mi dice:

inversione di marcia

Torno indietro

sotto il tavolo della cucina

con la mano in tasca

e il senso di colpa per la poca attenzione

e il tavolo è un cielo sereno 

celeste, come un disegno

che non si apre come la carne

e come quei tagli 

che solo la carta sa fare

Regina Re

sabato 19 novembre 2022

Con densità geometrica

 



Con densità geometrica


Sono al riparo 

ma non piove sempre diritto

al suolo i laghi d'asfalto 

sono specchi liquidi

aghi fini ed infiniti 

disegnano lacrime, brevi

interrotte da tacchi invadenti

sospese nei tratti

di sguardi bassi 

e ricordi appesi, 

come panni lesi.

Una condensa malinconica

di destini decisi e incisi

piove di traverso

come unità di volume

lungo diagonali di vetro

che graffio diritte sul petto

per chiudermi dentro

una massa informe

in un'area molle 

tra la punta delle scarpe

e un angolo di cervello


Regina Re

venerdì 18 novembre 2022

Pre-visioni




Pre-visioni


Siamo i bambini di ieri, ma non ricordiamo

Portiamo a spasso bambole di plastica

Quelle con gli occhi sempre aperti

E i capelli di nylon, 

Dentro una valigia light

Il nostro bagaglio a mano

Un disco che piange ininterrottamente

Un urlo ammortizzato

Da strati di intolleranza

Da egoismo travestito

E ripartito in quotidiana dose:

"20 gocce di perbenismo"

Ci fa stare meglio

Per il nostro futuro

L'idea che il mare sia infinito

E che ci siano nascite 0

E che i vecchi non ci saranno più

A rallentare il traffico

Domani le cose cambieranno!

Saremo ancora noi i bambini di ieri

Quelli con gli occhi sempre aperti

Con extension di illusioni vere

Dentro un selfie ritoccato

Con le nostre statistiche in mano

E certezze senza scadenza

Sullo scaffale del supermercato


Regina Re

La battigia





La nota di una melodia stonata nel lontano Agosto del 2014


Questo racconto mi ricorda tutte le palme del mio giardino che ora non ci sono più. Lo scrissi proprio qui, in Sardegna, seduta in veranda a guardare i primi segni causati dal parassita. 


Esercizio Di Scrittura creativa

da un incipit scritto da Nicola Cudemo


EDS La battigia


Spiaggia di primavera, che di primavera non ha molto.

C'è un vento freddo dal nord e la temperatura si è abbassata

parecchio. Il mare fa quello che deve fare, sbianca, rumoreggia e mi

riempie le lenti degli occhiali di un nebbia di goccioline. La battigia non è un posto molto piacevole, così mi addentro tra le dune, fra i ginepri radi della sabbia. Raccolgo le bacche marroni. Tanto rimarranno nella busta in macchina a fare la muffa, fin quando non le butterò. 

La sabbia ha una caratteristica invernale, fa come una crosticina, sopra. Seguo orme abbondanti, di cani, volpi, uccelli e insetti. Geroglifici di vita

insensata, brulichìo di dna.

La pace fra queste dune e fra la ramaglia

stenta dei ginepri corrisponde, stranamente, ad un occhio di pace

interiore. Occhio di ciclone, bottone dorato nel sole.

Sarà che a volte tocchiamo per caso la perfezione di un momento come

un'isola nel tempo. Sarà che sto invecchiando.

Ma non è per quello, perché capita anche da giovani.

Faccio un percorso fra muretti di tufo così invecchiati da essere

parte naturale del posto. Arrivo al canale dove gracidano le rane e si

sente la statale. Vedo la mia auto parcheggiata sotto la palma. 

So che non durerà questa pace.

Ma che cazzo.

Avrò tempo di stare in pace quando sarò sottoterra.

(Nicola Cudemo)


La macchina sembra un neonato avvolto nell’ombra, tra le braccia della palma.

Le foglie arrivano sino a terra e la chioma ha un anomalo portamento, il caratteristico aspetto divaricato ad ombrello, la figura postuma del collasso. Il parassita ha abbandonato la pianta ed è migrato altrove. Come tutte le palme alte della zona anche questa da lontano la puoi scambiare per una capanna. Alcune sono decapitate. 

Nel giardino di una casa, su di una palma dal tronco abbastanza largo ci ho visto una casetta di legno, con la scala. Fortunato quel bambino. 

Io l’ho sempre sognata una casetta di legno.

I topi, sì, ci vorrebbero proprio i topi per salvare le ultime rimaste. Gran bella prospettiva allearsi con il nemico, quando non hai altre soluzioni.

Guardo l'orologio, un Cartier, una delle poche cose di valore rimaste nella mia vita. Non è un valore affettivo ma l'ultimo dei miei affetti, il denaro. Ho bisogno di soldi, oggi, poi basta, non ne avrò più bisogno, mai più. La statale continua ad echeggiare rombi di auto, riesco a riconoscere la cilindrata, mi concentro cercando di isolarmi dal lontano rumore del mare e dal vicino gracidare delle rane. Il vento freddo trasporta ciò che sto aspettando, il rumore dei pneumatici che si addentrano nella strada dissestata tra buche, terra e sassi. La Micra sta arrivando.

Quella troia è puntuale, come sempre.

Pulisco le lenti degli occhiali con la maglietta, voglio guardarla bene negli occhi ma non voglio che oggi lei guardi dentro i miei. Ogni volta che lo fa riesce a scovare la mia disperazione e allora diventa prima mia madre e poi la mia compagna, le uniche donne che ho amato. La prima da sempre, la seconda da troppo poco tempo.

Le uniche donne che ho seppellito. Poi il nulla, un buco nero e lei con i suoi buchi da riempire con i miei soldi.

Il rumore della frenata sembra far zittire le rane, la polvere si alza a formare una nuvola tagliata dallo sbattere violento dello sportello e dalla sua voce che mi raggiunge: “Allora te l’ha data? Ciao, come stai? Oddio cos’hai, cos’hai fatto ai capelli oh, no, scusa, intendevo non stai male ma” e scoppia in una risata che sta tra urla e pianto di dolore. Una risata che fuoriesce tra le fessure delle dita che le coprono la bocca. Si porta sempre le mani davanti la bocca forse per nascondere i denti rovinati. Ha belle mani, peccato quello smalto nero, smozzicato, come il rossetto rosso sulle labbra, che ne altera ogni tentativo di espressione. Mi avvicino a lei, Gioia, la mia non so cosa, il mio nulla, il mio tutto, la mia droga sebbene non sia io a farmi. Io mi faccio lei.


"Cos'hanno i miei capelli? Non sono di suo gradimento?" il mio tono è da nobile senzaterra, non a caso mi chiamo Giovanni. Un tempo forse lo sono stato un nobile servitore dello Stato, oggi sono un Generale oltre i sessanta, in pensione e quasi senzatetto, che ha perso venti chili e si è tinto i capelli da surfista per una che al massimo arriverà marcia ai trenta.


Gioia si toglie le mani dalla bocca e se le passa intorno al collo. Le unghie lasciano segni rossi, striature parallele tra cui le note della voce stridula si posano come una melodia stonata: "No, è che non ti ci vedo, mi devo abituare, tutto qua. Anzi stai bene, sì sì bene, benissimo ma dammela, non ce la faccio più".

Segni su altri segni, geroglifici di vita insensata.


"Ti ricordi quando ci siamo incontrati? Il destino vero?" il mio tono sarcastico non la distrae dall’oggetto del suo sguardo, perso nella chiazza di vomito ai suoi piedi, tra i tacchi che sembrano un prolungamento delle gambe ad arco, scarne, livide dal freddo che nude fuoriescono da una logora minigonna in jeans.

“Eri appena scesa da una macchina e i Il tuo amico ti aspettava al tavolo del bar, come sempre, ma sei venuta diritta verso di me. Bel colpo le condoglianze su commissione.”


Quest’ultima frase la fa scattare ed è allora che si avvicina come soltanto lei sa fare: “Bel colpo il tuo invece, si sentiva ancora l’odore d’incenso del funerale e mi hai messo 100 euro sul tavolo. La amavi vero? Da quanto tempo era malata? O meglio, da quanto tempo ti mancava una donna?”

Le note si tramutano improvvisamente in insulti, in ricatti e soldi, soldi come pioggia che cade nelle sue vene. Un mare nero in cui galleggia la mia liquidazione, la pensione, la casa che ho venduto, tutto confluisce nello scoperto della mia coscienza, nei debiti che ho col mondo e con me stesso.

È la fine, è un suicidio color giallo epatite.

Penso alle bacche marroni. Rimarranno nella busta in macchina a fare la muffa, fin quando

non le butterò via. Perché aspettare?


"Ci credi al destino? Io no. Credo nella gente che parla e parla e parla. In un paese le voci non si perdono come le persone, come me. Questo non si chiama destino. Io la chiamerei opportunità.”

Ma lei non crede, lei prende e basta. Le interessa solo una cosa. E ormai sono io a portargliela.


Il parassita ha attaccato la pianta e ha deposto centinaia di uova nelle ferite del tronco. Le larve scavano da mesi profonde gallerie dirette verso il cuore. Una volta sazie saranno bozzoli ovali di fibra di palma, escrescenze deformi alla base della pianta. Una famiglia di ospiti in attesa di volare via, alla ricerca di un nuovo pasto a base di frutta marcia.


I topi, sì, ci vorrebbero proprio i topi per salvare le ultime rimaste.

Occorre allearsi con il nemico, quando non hai altre soluzioni.


Guardo verso la palma e poi mi soffermo su di lei che è nel mezzo e poi ancora guardo verso il cielo.

La statale è in silenzio e le rane aspettano il loro turno, una pausa di pace fra alta e bassa marea, un posto piacevole ora in quest’ equilibrio che non durerà, ma che corrisponde stranamente ad un occhio di pace interiore.

Occhio di ciclone, bottone rosso-brunastro nel sole.

Il bottone si allarga e diventa un insieme di migliaia e migliaia di occhi che osservano attoniti.

Questa volta non me.


Gioia è in piedi, nuda, in attesa di ricevere ancora. Apri tutto mia cara, ti darò un’altra opportunità, sei pronta?

“Non ti preoccupare, ce l ‘ho in macchina” le dico e passo oltre la sua figura e lei non si volta neanche con lo sbattere dello sportello e i miei passi che si dirigono nuovamente verso di lei mentre una nuvola di coleotteri inghiotte l’aria, seguendo una traiettoria a spirale, scavando gallerie dirette verso la sua bocca, che è aperta in un urlo soffocato.

La maglietta bianca trasparente lascia intravedere il reggiseno nero che attraversa in orizzontale le vertebre. Lascio che la lama si insinui tra il collo e il bordo bianco della maglietta, una sottile linea d’argento che per un istante potrebbe sembrare un gioiello prezioso.

L’onda sbatte violentemente verso il suolo.

Il mare fa quello che deve fare.

Sarà che a volte tocchiamo per caso la perfezione di un momento come

un'isola nel tempo. Sarà che sto invecchiando e il bianco non è il colore del sole.

Ma non è per quello, perché capita anche da giovani.

La nuova palma è così invecchiata da essere parte naturale del posto.

Il tronco è abbastanza largo.

Poggio a terra la mazza.

Eccola la mia nuova casa. Io l’ho sempre sognata una casetta di legno.

So che non durerà questa pace.

Ma che cazzo. Avrò tempo di stare in pace quando sarò sottoterra.

Per ora le ho tagliato soltanto la testa.


(Regina Re)