sabato 11 maggio 2013

Le Negazioni trentasei pezzi







36 pezzi

A metà mese il mondo cadrà in pezzi


'36 pezzi', diversi
grida nel silenzio
un muro nel vuoto
di un mondo perso
cloni di un nucleo
che non fotocopia
che non ti adora
ma ti dà la parola
frecce puntate al sì
teste che dicono no!
volti nascosti
scomposti
in versi,
semplici 
parole pistole
caricate a salve
salvati e abbandonati
leggici e ritrovati


Regina Re

Incoerente coerenza

Mi muovo sto fermo
Rido piango prego maledico
Mi amo mi odio
Mi muovo dentro me fermo
Mi fermo fuori da te mosso
Parlo muto urlo silenzio
Sono diverso sempre
a volte solo me stesso

Anima lì

Lì il serpente striscia silenzioso, la lingua lo tira, lo guida
trascina il corpo liscio sul pavimento, specchio di neon
piedi nudi lasciano impronte, ombre
l'anima striscia ai piedi e ne ignora la testa:
"schiaccia, colpisci, calpesta!"

Lì nessun piede che schiacci quella testa
è festa, occhi a fessura e cin cin di bicchierini
grappe e grappini, in fila come soldatini
l'anima reginetta della festa:
"striscia, scivola, confessa!"

Lì solo teste serie, stile made in Italy
ingoia, dimentica, caccia in quel negozio
entra e sogna il sogno di un trionfo
l'anima si pavoneggia tra gli inchini:
"fanculo, tutti burattini!"

Lì solo un'arma è consentita
pago il conto, punto, compro
lancia al muro il bicchiere rotto
l'anima nuova ora ha scarpe vere:
"sono di pelle, è nera, è di serpente!"

R. Re 

2 dei 36 pezzi da: Le Negazioni 36 pezzi di Nucleo Negazioni















venerdì 3 maggio 2013

Dipinto ad olio su tela d'acqua







"Dipinto ad olio su tela d'acqua"


Voglio costruire una zattera del tempo

o una lampada ad olio,
per redimere la colpa mia
d'aver ceduto
alla vanità di dire


Voglio vantarmi di aver detto nulla
d’aver ceduto alla paura
per coprire la gioia mia
bolla d’olio nell’acqua
luminosa scia di un zattera (scritto ora)

scritto tra domani, ieri e voglio

provare a trovare,
quella parola
virtuale tra dire e non dire,
cedendo ma anche no,
recidendo gli ormeggi,
per navigare su quest'olio di mare,
con la gioia, la paura e la colpa
redente in vanto.



Letto ora, tra tempi morti
quando non albeggia il puoi
quando tramonta il vuoi
tra i cuscini di ieri e di domani
dimenticando ma anche no,
riportando in vita il tempo
per fermare il navigare
in quell’attimo di calma
che annulla il dire e il fare


Newclear & Regina Re






sabato 16 marzo 2013

Report














Report


"Gli animali hanno il branco. Anche gli uomini. Gli animali maschi lottano per la femmina, per il territorio e le femmine   a volte manco li cercano i maschi, se li ritrovano dietro. Le femmine si guardano le spalle, i maschi non fanno caso alle s, sono machi e hanno le palle.

Gli animali sono bestie e in quanto tali sono sempre i più simili a noi tutti.

Tutti è il branco di maschi e femmine che popolano il pianeta terra, signori e signori (le signore le usiamo al singolare femminile, al plurale usiamo i maschi).

Sullo schermo un'antilope sbranata da un branco di leoni (sono femmine, le femmine cacciano, i maschi mangiano).

Se sei donna hai doveri, i diritti pure. "Puoi", ti dicono, quando e come dipende dai tuoi (doveri).

Gli animali, sì, bisona studiarli gli animali, bisogna imitarli perché gli animali non sbagliano mai. Loro si incontrano e si riconoscono. Si scontrano e si accoppiano. La supremazia è meritocrazia, è odore, è sesso e sangue, violenza e morte. Noi non abbiamo odore, soltanto sapore. 

Il sapore dell'odio."


No, non era quello il diario di bordo, quello era uno dei tanti stralci del libro nero, quello che si scriveva dentro. Le otto ore e mezza della giornata si svolgevano tra un appunto e l'altro che lei lasciava sui post it , i suoi strumenti discreti che riportavano date, orario e parole chiave di ciò che doveva ricordare. Il ricordo era essenziale, nessun particolare doveva essere trascurato, andava tutto sul file "Report" che aggiornava ogni sera da due anni ormai.

Il libro nero era invece il file che aveva aperto dentro, una specie di pozzo dove scendeva goccia a goccia il nero dell'inchiostro, una macchia che piano piano si stava spargendo nel suo stomaco, nel suo petto, su tutta la faccia. Non aveva più la bocca: "silenzio", le avevano detto, "non devi parlare ma soltanto ascoltare".

Qualsiasi parola, espressione, atteggiamento diretto e indiretto dovevano essere registrati, datati, temporalizzati. Questo le aveva detto quel sindacalista che le avevano consigliato di contattare telefonicamente. I post it erano tutti appesi nel suo cervello. Un albero di foglie gialle, lucette ad intermittenza del suo albero di Natale, ognuna un'idea creativa di chi non aveva ormai più sorprese da farle. I regali erano stati tanti, inaspettati, infiocchettati. Ogni volta li aveva presi tra le mani con il sorriso sulle labbra e con tanta speranza ma, sul più bello, un clown con i denti da squalo era sbucato fuori dalla scatola e il grido d'orrore di lei era stato soffocato dalle risa di Babbo Natale. Un esercito di scimmie ammaestrate sistematicamente cominciava ad urlare e si sbatteva i pugni sul petto. Le scimmie, conosceva gli scimpanzé che ti fottono perchè sembrano umani. Le scimmie graffiano, mordono e sono dispettose. Le scimmie sono anche cattive, e lei non lo avrebbe mai detto. 

Avrebbe detto che forse aveva sbagliato anche questa volta, avrebbe dovuto rispondere "Sì" con un "Sì" più convinto, magari aggiungendo "Sì Silvia", e abbozzare un sorriso meno sorriso. È che magari il sorriso era stato scambiato per una presa per il culo visto che Silvia le aveva appena comunicato in modo ufficioso e non ufficiale che l'azienda non le avrebbe rinnovato il contratto. 

"Problemi di budget" aveva detto.


È che forse quel sorriso l'aveva fatto troppe volte, anche quando non c'entrava un cazzo. Ma anche lei non c'entrava un cazzo in tutto questo. Era proprio  questo che aveva sbagliato. Magari l'avevano soltanto messa alla prova in questi ultimi due anni e lei aveva semplicemente fallito miseramente. Avrebbe potuto imporsi ma aveva pensato si trattasse soltanto di paranoie, le dame di compagnia di un'insicurezza che spesso la rendeva un tantino permalosa. Erano solo cattivi pensieri, a volte la realtà è meno reale dell'immaginazione e la sua l'aveva sempre superata di gran lunga.

Il giorno del colloquio non aveva avuto fiuto ma l'animale che si era trovata davanti aveva invece trovato la sua preda. L'odore si era sentito da lontano, sebbene fosse racchiuso in una boccetta pregiata con scritto sopra : "Le jeu pour le jour!". Ah, che  soddisfazione dev'essere il cospargersi  d'ingenuità gratuita.

Silvia, il suo nuovo capo, un profumo dolce e malinconico, forse vittima di quei versi romantici a cui il nome necessariamente riportava. Ma quell'altra Silvia se l'era sempre immaginata mora, un po' pallida. Silvia invece era stata mora, almeno ci era nata, poi si era convertita alle meches. Le stavano bene, era bella Silvia, una bella donna di 45 anni, che non aveva nulla da invidiare a lei, Chiara, che ne aveva dieci in meno. 

Chiara invece al contrario del suo nome era mora e si tingeva i capelli dell'unico colore che sembrava andare d'accordo con la sua pelle olivastra, il violino.

Ma non era una questione di colore, di tono, il punto era che non esisteva un vero punto della situazione. Mancavano  i punti di riferimento del passato e c'erano soltanto punti di sutura all'orizzonte che si confondevano con gli stormi di uccelli neri e gracchianti che aspettavano minacciosi, come fastidiosi guardiani di un cielo sempre più basso.

Il tono invece era secco, scostante, pungente e diveniva dolce e simpatico soltanto quando qualche ospite varcava la soglia di quell'area. Un'area chiusa, riservata soltanto a chi era in grado di non guardare, non sentire, non parlare se non attraverso un filtro chiamato compromesso.


"25/06/2009 ore 08:30 Ufficio deserto

09:45 sono appena arrivati insieme ad un gruppo di persone. C'è un'ispezione e nessuno mi ha avvisata (arriva sempre un fax qualche giorno prima). Vanno a prendere il caffè. Silvia chiama tutti tranne me. 10:30: Ufficio deserto, sono in riunione pre ispezione. 13:30 Silvia ha appena spalancato la porta del mio ufficio dicendo: "Buongiorno Chiara!" come se fossi appena arrivata.  Mi ha pure presentata: "Vi presento Chiara e la Sig.ra Marini". Ha omesso il mio cognome e soprattutto si è guardata bene dal presentarmi con il mio titolo di Dottoressa. Invece ha presentato Pamela come signora. Tanto per mettermi un gradino sotto di lei. Poi sono usciti."


Pamela era la protetta di Silvia. Più che altro la protetta dell'amichetto che le faceva i favori da anni e che veniva sempre a trovarla. Era un pezzo grosso, anzi un grosso pezzo di merda ammanicato con la politica. Bastava chiamarlo per velocizzare qualsiasi pratica ma anche Silvia si era data da fare durante i suoi 25 anni in azienda e tutte le pratiche oramai passavano da lei, anche quelle personali.

Chiara sapeva benissimo che sarebbe bastata una una semplice telefonata per chiuderle. Silvia invece faceva credere a tutti che la cosa era stata davvero complicata, che c'erano aziende che avevano addirittura chiuso per questo. Faceva aspettare mesi ma poi offriva il risultato su un piatto d'argento, dove invece spiccava la testa della persona a cui aveva fatto un favore.

Tutti le dovevano un favore.

Chiederle un favore significava indebitarsi a vita con il diavolo in persona.

Era una bella donna e sapeva muovere gli uomini come pedine, conosceva le regole del gioco, e da anni aveva cominciato a dettare le sue.

All'inizio si era presentata come una vittima agli occhi di Chiara, quando Chiara era appena entrata, quando era ancora qualcuno nel suo settore. Chiara era un esperto nella protezione delle informazioni.

Silvia era stata di una cortesia inaspettata, da parte di una donna si intende, una donna più grande che manifestava apertamente l'intenzione di voler essere sua amica.

"Io so riconoscere le persone valide e tu sei una fuoriclasse", aveva detto a Chiara a fine colloquio. Poi le aveva sorriso dolcemente e Chiara si era sentita molto apprezzata. Quello ormai era un ricordo lontano, a volte le veniva anche il dubbio di averlo sognato quel giorno e che non fosse mai accaduto.

Dopo qualche mese Silvia l'aveva addirittura invitata alla comunione di sua figlia e proprio durante il ricevimento aveva presentato Chiara a sua madre dicendo: "Mamma ti presento la mia migliore amica". Chiara si era commossa, forse Silvia non aveva amiche, per considerare lei la sua migliore amica. Chiara invece ne aveva tante e Silvia in quel momento le aveva fatto anche pena. Una donna di successo che facilmente poteva essere invidiata dalle altre donne. 

Infatti in molti storcevano il naso al solo sentirla nominare, ma non la conoscevano come la conosceva Chiara.

A dispetto degli altri Chiara si fidava ciecamente di lei.


"Silvia devo dirti una cosa, sai finalmente avrò un bambino!".

Silvia si era commossa al telefono e poi le aveva raccomandato: "Non dire nulla in ufficio, ti dirò io quando è il momento giusto!". Chiara si era sentita subito più tranquilla visto che erano quattro anni che andava avanti a contratti a tempo determinato. Meno male che c'era Silvia!

E lei c'era stata davvero e il male era stato tanto. 

Aveva calcolato tutto, anche quando le aveva detto che durante i cinque mesi di maternità obbligatoria avrebbe fatto in modo di farla sostituire con una risorsa decisamente di livello inferiore. In questo modo a nessuno sarebbe mai potuto venire in mente di non rinnovarle il contratto: "L'azienda se ne frega di te, io so come funziona, bisogna stare attente. Tu stai tranquilla mi occuperò io del tuo lavoro e di rimarcare il fatto che sei indispensabile".

Allora era arrivata Pamela, con la terza media e un curriculum impresentabile. Silvia lo aveva sistemato e poi aveva chiesto a Chiara di istruirla e di insegnarle le basi del lavoro. A Chiara era venuto un colpo quando si era accorta che Pamela non sapeva neanche accendere un PC.

Dal momento in cui Pamela aveva varcato la porta di quell'ufficio Chiara era diventata davvero una fuori-classe.

Pamela era stata annunciata dal pezzo grosso col quale era imparentata e da quel momento le luci si erano accese su di lei. In realtà non c'era un interruttore on per Pamela e uno off per Chiara. Sarebbe stato tutto più semplice e veloce: Chiara off-on Pamela. Fatto. No, non avrebbe funzionato. Silvia non era stupida, sapeva il fatto suo. Conosceva bene i giochi aziendali. Non era una dilettante. 


"Sai Chiara, non hai idea di quello che mi hanno fatto passare. Tutti e tre mi hanno fatto la vertenza, per manipolazione, ti rendi conto che cosa ho dovuto subire?"

Questo le aveva raccontato Silvia quando Chiara all'inizio si era accorta che tre dei quattro membri dell'ufficio a malapena salutavano il loro diretto responsabile. Il quarto era il capo di Silvia e lui Silvia la stimava, l'adorava e non avrebbe potuto far altro che difenderla. La storia era morta prima di ri-cominciare. Evidentemente non erano stati i primi e non sarebbero stati gli ultimi. L'ufficio del personale aveva ascoltato le vittime. Una l'avevano convinta che si era sbagliata e l'avevano lasciata al suo posto, le altre due erano state trasferite. Silvia dopo una decina di anni li aveva perdonati tutti e li aveva riportati sotto di sé. 

Loro tre erano le scimmie urlanti e fedeli, una con la mano sugli occhi, una sulle orecchie e una sulla bocca.

Le tre regole fondamentali.

Pamela era il braccio destro, una protuberanza deforme di un arto che aveva estremità ad arpione, unghie che si ficcavano nella carne per poi trasformarsi in radici. Come il grande ficus che Chiara aveva visto all'entrata del quartiere la Kalsa a Palermo. I suoi rami scendevano sino a terra, per poi mettere le radici.

I rami piangono perché sono flessibili. Sanno umiliarsi, inginocchiarsi. 

Questo è l'unico modo che hanno per crescere. O per sopravvivere.

Chiara non si era inginocchiata. 

Non ancora.


Le scimmie erano state chiamate tutte, una ad una per essere istruite. Ore ed ore di training, ore e ore di lavoro rubate all'azienda.

Pamela aveva il primato di ore passate nell'ufficio di Silvia. Le restanti le passava in quello di Chiara, o almeno in quello che era stato "suo" sino a quel momento. 

Silvia aveva convertito anche Pamela alle sue meches, uno dei task mensili era proprio andare dal parrucchiere e, signori e signori, ci vuole mezza giornata per le meches.

Silvia decideva giorno e ora.

Infrasettimanale, subito dopo pranzo.

Allora era gentile e cinguettava con aria di complicità:

"Pamela, a rapporto! Chiara, se qualcuno chiede di noi siamo ad un corso di formazione!"

Chiara era felice, avrebbe respirato meglio da sola in quella stanza, almeno avrebbe pensato con disinvoltura, senza sentirsi continuamente sotto esame.

Gli esami, ormai non li ricordava più i suoi, quelli dell'università, del Master, e i colloqui che pure quelli erano stati come esami per lei!

Pamela invece era fresca della maturità: "Chiara se ti chiedono come mai Pamela non c'è devi dire che è il missione locale", si era raccomandata Silvia. Chiara aveva allora capito che Pamela non aveva dovuto neanche chiedere ore di permesso o giorni di ferie per dare gli esami. Pamela risultava almeno diplomata nel suo falso cv.

Per il resto era stata presentata come un esperto del settore.


"09/07/2009 ore 09.45: Silvia ha spalancato la porta senza bussare, è entrata in ufficio con una serie di carte impilate in mano, mi ha guardata sorridendo mentre diceva "Buongiorno Pamela!" e ha sbattuto con forza il carico di carta sulla scrivania di Pamela. La mia scrivania è vuota da mesi. Quando la porta si è chiusa mi sono alzata e mi sono avvicinata alla scrivania di Pamela che stava consultando il meteo per il fine settimana. Ho preso le carte, le ho poggiate sulla mia scrivania e ho cominciato a lavorare".


Pamela tornava a casa il fine settimana, dalla sua famiglia che viveva ad un paio di ore dalla capitale. Lei il venerdí usciva alle 14.00. Silvia aveva sempre una missione locale per lei, sebbene si sa che gli Enti pubblici il venerdí pomeriggio sono praticamente deserti.

L'Azienda tra l'altro disponeva di guardie giurate abilitate alla funzione di corriere, ma quelle Silvia le utilizzava per missioni più importanti e in caso di vera emergenza.

Le sigarette non potevano mancarle e quell'area era soggetta a diversi regolamenti tranne che alla legge contro il fumo negli uffici.

Ogni tanto qualche complimento al plurale femminile arrivava all'improvviso: "Bravissime!" 

Questo accadeva quando Silvia si complimentava per il lavoro svolto in presenza di qualche alto dirigente.

Chiara guardava il pavimento, poteva essere confuso per timidezza quel sorriso smorto. Il plurale femminile stonava visto che di donna ce n'era una sola. L'altra era una scimmia che si pavoneggiava con piume di meriti altrui. Un pavone che strisciava silenzioso e che squittiva mentre si infilava con le sue forbici nell'orecchio di Chiara.

Un cerume che fuoriusciva come pus da quel taglio che le si era aperto nello stomaco. La diagnosi era stata quel tumore chiamato "depressione".


"Chiara dovresti stare a casa, sei in un periodo particolare, il bambino è piccolo e non puoi essere soggetta a questo tipo di stress. Almeno dieci giorni", aveva detto il medico. 

Chiara si svegliava al mattino come se non avesse dormito neanche un minuto ma doveva prepararsi, essere curata e sorridente. Mai e poi mai avrebbe lasciato a Silvia e alle scimmie quella soddisfazione che attendevano ormai da tempo.


"5/09/2009 ore 13:30: Siamo andati a mensa e come al solito tutti si sono seduti in modo da lasciare il posto davanti a me vuoto. Silvia però questa volta si è messa nel tavolo accanto. Almeno non hanno riso come ieri."


Silvia e le scimmie erano soliti parlare in codice durante il pranzo. Indovinelli, parole crociate, dicevano il tanto che bastava per far capire a Chiara che non sapeva quella cosa riguardante il suo lavoro. Che era l'unica a non sapere.

Chiara pensava solo che avrebbe voluto un modo per saltare la pausa pranzo, per andare a mensa da sola. Ci aveva provato un paio di volte ma Silvia glielo aveva impedito. Una volta Silvia aveva invitato a pranzo due colleghi con cui Chiara aveva preso ad andare a mensa da qualche giorno. Il giorno dopo i due si erano stranamente dimenticati di chiamarla per pranzo. Un'altra volta Chiara l'aveva vista chiacchierare con altre colleghe con le quali era andata a pranzo il giorno prima. Anche quelle improvvisamente si erano messe in ramadan: "Guarda oggi noi non pranziamo", ed erano sparite pure loro.


Il pranzo, bastava un buono pasto per essere al centro dell'attenzione di un gruppo di persone. Una piccola "folla" che si formava all'improvviso in un dato luogo, in date e orari prestabiliti. 

L'appuntamento ore 13:30 a mensa era l'unico ricorrente. Cambiava soltanto la dinamica della disposizione intorno al tavolo e l'indovinello del giorno.

 

Il pranzo, un banchetto di vanità applicata alla caccia allo scoop aziendale, alla scherma delle occhiate di disprezzo, al surfing sulla scia del saluto al dirigente più in vista del momento, al poker sulle future promozioni e, infine, al bulling in stile libero.

Silvia calcolava ogni mossa in sala mensa come un'anoressica che conta il numero delle calorie che ingerisce. 

Ma Silvia sapeva come farle vomitare.

Le sue dita Chiara se le ritrovava all'improvviso su per la gola.

Prima di cominciare a mangiare però Silvia si faceva sempre il segno della croce. 

Lei ringraziava.


"15/11/2009 ore 13:40: Oggi Silvia ha invitato un paio di persone a mensa, alcuni membri della dirigenza. Uno dei due si è seduto davanti a me. Dopo il segno della croce Silvia ha cominciato un discorso strano: "L'amicizia tra donne prima o poi finisce. Ad un certo punto scatta la competizione e la gelosia." Poi si è fermata e ha guardato ad uno ad uno i presenti tranne me. Poi ha continuato: "Generalmente chi ti tradisce è sempre la tua migliore amica" e l'ha detto fissandomi dritta negli occhi. Anche gli altri mi hanno fissata.

Quando abbiamo preso l'ascensore per tornare nell'area qualcuno ha spinto -2 invece di 2. Allora Silvia ha detto: "Bisogna cadere in basso per apprezzare veramente dove si è. I premi vanno sempre a chi non li merita!". Ha guardato me e anche gli altri mi hanno guardata.


Certo, il motivo doveva essere proprio quello, quei complimenti che Chiara aveva ricevuto dal nuovo capo programma. Il capo non era nuovo. Era Chiara che era stata spostata su un nuovo programma dopo cinque anni. Due erano troppe e Pamela, l'ultima arrivata, aveva preso il suo posto. 

La sostutuzione per cinque mesi era stata prolungata a per sempre. 

Ma a Chiara andava bene, almeno l'avevano spostata nell'ufficio accanto, con un essere umano.

Ma il nuovo capo programma aveva fatto l'errore di elogiarla.

Chiara era impallidita quando Silvia l'aveva chiamata. Non la chiamava mai, non ricordava più neanche da quanto tempo il suo nome non venisse pronunciato in quel luogo. Era entrata nell'ufficio e c'era anche il capo di Silvia. Allora il capo programma l'aveva salutata con grande entusiasmo sotto lo sguardo attento dei presenti. In realtà era lui che l'aveva fatta chiamare: "Complimenti Chiara, da tempo aspettavamo una persona in gamba come te. Vorremmo coinvolgerti nelle nostre riunioni vista la tua esperienza e le tue competenze. In realtà potresti essere un ponte tra il Programma e la Sicurezza"

Chiara aveva ringraziato ma sapeva benissimo che quelle parole le avrebbe scontate tutte, una ad una. Ne era certa, soprattutto quando Silvia aveva aggiunto con un tono di grande soddisfazione: " Concordo pienamente. Chiara è un vero esperto del nostro settore!". A fine frase i suoi occhi avevano fulminato quelli di Chiara.

Silvia non voleva nessun contatto con l'esterno. Nessuna informazione poteva uscire se non proferita dalla sua bocca. Non permetteva a nessuno di partecipare a riunioni fuori dall'area e neanche lei ci andava. Le riunioni spesso erano in Inglese. Ma lei non aveva problemi. Aveva limitato gli accessi all'area. Soltanto gli italiani potevano entrare con un badge. Gli stranieri dovevano citofonare. Gli italiani erano istruiti sulla regola fondamentale: " Rivolgersi a Pamela". 

Soltanto Chiara se la cavava con l'inglese sebbene il programma internazionale, alla fine, fosse stato affidato a Pamela.

"Abbiamo stabilito nuove regole in tua assenza. Facciamo in modo che vengano rispettate e che le persone non riprendano le cattive abitudini che hanno avuto per troppo tempo", questo era stato per Chiara il bentornata dalla maternità. Silvia l'aveva accolta con un mazzo di fiori e poi le aveva dato questa mazzata nel corridoio, davanti a tutti.


"15/02/2010 ore 15:00 Silvia mi ha chiamata strillando dal suo ufficio: "Dottoressaaaa a rapporto!".

Sono andata da lei e mi ha fatto chiudere la porta. Ha esordito con: "Sai Chiara, io ti avevo dato dei consigli ma tu non li hai voluti accettare. Sei restata in finestra a guardare. Sai qual'è il tuo problema? Ti è stata data una Ferrari in regalo e poi ti è stata tolta perché non hai voluto seguire i consigli di chi poteva insegnarti a guidarla. Ora ti ritrovi con una Cinquecento. Devi fartene una ragione, ti ci devi abituare!"

Io sono stata in silenzio sino a quando Silvia ha ripreso a parlare: "Se vuoi c'è un posto in un altro Dipartimento, posso mettere una buona parola per te"

Io le ho risposto : "Se ti fa piacere fa come meglio credi".

Lei ha continuato: "Ma sai Chiara, le cose funzionano in una certa maniera, quindi..."

Io ho capito che voleva le dicessi grazie ma ho ribadito:

"Silvia, fai come credi sia giusto".

Lei ha sbattuto la mano con violenza sulla sua scrivania e mi ha fulminata con: "Non è cosí che funziona hai capitooo!!!!". Poi si è accorta di aver perso la calma, quella che per due anni ha tentato di far perdere a me. Allora si è trasformata di nuovo e con schifosa dolcezza ha aggiunto:

"Sai Chiara, non riesco proprio a capire come mai sei cambiata cosí nei miei confronti. Che cosa ti succede? Ti sei incattivita, se un giorno vorrai spiegarmi..." 

L'aveva detto con le lacrime agli occhi, calcolando le pause e il tono della voce in maniera impeccabile, mentre spegneva l'ennesima sigaretta nel posacenere di pietra stracolmo di cicche."


"Silvia, io cambiata? Davvero…dici? Ti sbagli, sono sempre io! " aveva risposto Chiara, manifestando uno stupore talmente ostentato da dover apparire assolutamente falso.

Sapeva benissimo che il programma stava aspettando una richiesta da parte di Silvia e invece Silvia l'aveva appena informata che il Programma non aveva avanzato alcuna richiesta d'acquisto. I soliti problemi di budget.

Chiara ora la guardava dritta negli occhi mentre si alzava dalla sedia posta dinanzi la scrivania di Silvia. Finalmente anche lei era stata chiamata al cospetto di sua Maestà, ma il suo training era durato di più di quello delle altre scimmie. Il manuale era nero, lungo pagine e pagine di schiaffi. Ora era pronta per il test. Si era preparata a qualsiasi domanda per non dare alcuna risposta.


"Non ti preoccupare Silvia, lascia stare" , aveva detto mentre si chinava a spegnere la sua sigaretta. Mai e poi mai l'avrebbe ringraziata per quell'inferno che quell'essere le aveva costruito intorno.

Il pensiero di Chiara era allora andato a qualche giorno prima, mentre ritirava il vassoio a mensa, quando aveva sentito bisbigliare un paio di leccaculo di Silvia che dicevano: "Sembra che l'abbia aggredita verbalmente". Poi si erano subito zittiti quando Chiara si era voltata di scatto. Anche il capo programma si era recato da Silvia a chiedere come mai la richiesta per Chiara ancora non era stata inoltrata. Silvia aveva chiuso la porta ma Chiara era scivolata silenziosa nel corridoio vuoto. Era venerdí pomeriggio. Ore 16:30. Aveva udito solo alcune parole di Silvia: "Mi dispiace ma si tratta di una cosa grave e preferisco non parlarne".


"Un giorno forse, sì, il giorno", aveva sussurrato Chiara, poi aveva guardato il volto di Silvia che era ancora in attesa di un grazie. L'aveva guardata con dolcezza e con un sorriso rassicurante,  identico a quello di Silvia quando si erano incontrate la prima volta. 

Le aveva accarezzato il volto con il posacenere e poi aveva cosparso la cenere come cipria sulle guance di Silvia, attenta che le cicche si mescolassero con il sangue e i denti spezzati. L'aveva dunque coperta con la mano quella bocca, per far sì che le cicche andassero giù per la gola e ancora più giù, a mescolarsi con il marcio che stagnava in quel corpo almeno da 20 anni ormai. Un marcio certificato e approvato dalla corpo-rate aziendale.

Poi si era voltata verso la porta.

La porta era chiusa, come sempre.

Aveva chiuso gli occhi e poi li aveva riaperti.

Sul comodino della camera da letto spiccava la boccetta pregiata. 

Dentro si intravedevano cicche colorate, il profumo era quasi finito, era durato tanto. Due anni.

L'odore era quasi svanito, Silvia se lo era spruzzato diverse volte al giorno.

Chiara aveva sorriso guardando l'etichetta:

"Le jeu, le dernier jour".


Poi si era voltata verso la porta.

La porta era ancora chiusa.

Per sempre.


"Sullo schermo lo scheletro di un'antilope con qualche brandello di carne attaccato.

Il branco intorno è a riposo, è sazio."


Questa era l'ultima frase del file Report, un insieme di post it che avevano finito per confondersi con il nero dell'altra storia, quella mai scritta, quelle urla mute che nessuno avrebbe mai udite.

Una storia che non sarebbe mai esistita e che le scimmie avrebbero raccontato come di una malattia.

Al funerale Silvia era stata inconsolabile.



Regina Re































giovedì 14 marzo 2013

Traces




Foto :Paola Sinibaldi

Editing, Stylist & Model: Eleonora Volpe

Testo: Regina Re






Traces

"there are roads of ink
traced by anonymous writers
and traversed by simple words
during the years of poets life"



Regina Re





domenica 3 marzo 2013

L’angelo






“L’angelo”

 

 

Sette giorni prima

 

“Sì, ce l’hai. Hai l’angelo.”

La vecchia tira un sospiro non di sollievo e poi resta in silenzio.

 

L’incontro

 

E’ una splendida giornata di sole e il sole mi sorride ora che sto camminando lungo il viale che dall’ospedale porta al parcheggio. Ho le mie risposte in mano e la componente che mi compone è stabile. Ho voglia di fare un buon gesto quando sul marciapiede del viale si materializza una zingara. Ho appena lasciato cadere due euro nella sua mano che lei mi dice: “Una donna che tu credevi fosse un’amica ti ha fatto molto male e continua a farlo”. Mi blocco. Come fa la zingara a sapere di quella stronza mondiale? Un altro euro e lei sentenzia: “Ti hanno fatto una cosa, una cosa brutta”. “Senti, basta, non voglio sapere più niente. Ciao e grazie”, le dico e la saluto. Ma lei aggiunge: “Ascolta, credimi, mia nonna ti può aiutare, lei li toglie”. “Cosa toglie?” le chiedo senza voltarmi . “I tre nodi. Tra sette giorni…” ma io affretto il passo verso l’uscita. Ti guardano in faccia e ti leggono l’anima. Non c’è dubbio che la zingara ha letto questo, la mia paura.

Il cuore batte, ansia, fastidio addosso, fa caldo ma è inverno.

Sette giorni a cosa?

 

Sette giorni dopo

 

E’ venerdì e sono in ufficio. Per tutta la settimana quella sensazione non mi ha abbandonata.

Penso alla mia amica Andrea e a quello che mi disse una volta su quella vecchia signora che lavora per il Vaticano. Il cellulare vibra. E’ Andrea. Un altro segno.

“Pronto Vero, che fine hai fatto?”

“La solita fine, lavoro, casa, famiglia”

“Ci vediamo domani sera?”

“Sì, certo, se ci sarà un domani…”

“Perché parli così? Che cosa succede?” mi chiede ed io al riparo da orecchi indiscreti, racconto in breve l’accaduto.

“Ascoltami, chiamo la vecchia signora, quella di cui ti ho parlato, sento che dice, così ti calmi”. Mi ricarico con circa dieci minuti di pasticche di forza. Il telefono squilla di nuovo: “Senti Vero, ascolta, ci ho parlato ma quando le ho nominato questi tre nodi mi ha detto che non li dovevo neanche pronunciare. Mi ha detto che ti deve vedere.” Silenzio.

Il cuore mi si ghiaccia, una sensazione che mi rende impotente, immobile, preda di tutto ciò che si muove nel nulla, nella paralisi silenziosa degli arti e del respiro trattenuto.

“Vero, mi senti?”…

 

…“Ti devi lavare le mani prima di entrare. Lei non ti tocca sino a quando non ti legge dentro”.

Qualcun altro mi deve leggere dentro. Mai come in questo momento rimpiango quella stronza a lavoro e quella componente del cazzo.

Entriamo e la vecchia si rivolge a me: “Non ti do la mano ma vieni, siediti e togli tutto ciò che di metallo hai indosso e metti le mani sul tavolo”. La vecchia si siede di fronte a me e comincia: “Hai qualcosa, ci sei nata e te la porterai dietro ma stai bene, tutto sommato. Hai un figlio piccolo e un marito. Hai una bella famiglia”, mi dice. Accenno un sorriso mentre la vecchia signora prende un mazzo di carte, le mischia e poi comincia a girarle sul tavolo: “Un ragazzo, molto giovane, stava molto male ed è andato da una come me che ha fatto delle cose. Ha bruciato delle cose e poi gli ha detto di gettarle. Tu ci sei passata sopra e l’hai portato a casa. Tu e tuo figlio. Eri in cinta. Anche tuo marito ce l’ha, ma di meno di voi due. La madre, il padre, il figlio. I tre nodi. Non l’hanno fatto a te. Ma è meglio esserne certi. Prendi queste e mischiale tu, poi poggia il mazzo coperto a terra e prendine una parte.” Mi porge il mazzo di carte ed io comincio a mischiarle, poi poggio il mazzo a terra e ne prendo quasi la metà. Guardo la carta esposta, un asso di spade. La mostro alla vecchia e lei annuisce:

 

“La zingara ha visto giusto. Sì, ce l’hai, hai l’angelo”

La vecchia tira un sospiro non di sollievo e poi resta in silenzio.

 

“Mischiale di nuovo e poi fai la stessa cosa per darlo a me”. Penso che tutti i problemi a lavoro sono cominciati durante i primi mesi della gravidanza, una cosa dietro l’altra, un domino di negatività che sembra non aver fine da un paio di anni ormai.

Divido il mazzo e guardo la carta. Asso di spade.

 

“Di nuovo, la terza volta e poi mostra a lei”, dice la vecchia rivolgendosi ad Andrea. Ripeto tutto e le mani mi tremano e anche la voce quando dico di fronte allo sguardo atterrito di Andrea che vede la carta che è uscita fuori: “Cos’è? Dimmi cos’è!”. Andrea non risponde. Guardo la carta e lancio il mazzo sul tavolo. Asso di spade. 

La vecchia mi guarda con una strana compassione e mi invita a sedermi, io ho la tachicardia mentre ascolto le sue parole: “Dalla testa ai piedi e dai piedi alla testa. Il prezzo è la somma dell’altezza della madre, del padre e del figlio, un euro per centimetro. Un euro al chilo per la somma del peso della madre e del figlio.”


Quella volta aveva odiato la sua altezza al di sopra della media ma aveva ringraziato la sua attenzione al controllo del peso.

 

“Devi andare dalla zingara, dove l’hai incontrata e lasciarle cinque euro. Ma deve essere di lunedì”.

 

Ora si sentiva leggera dopo sette giorni di angoscia paranormale piombata, nel vero senso della parola, nella sua vita normale. Il giorno dopo sarebbe partita per quella crociera insieme al marito, che aveva insistito tanto per quel tipo di vacanza che a lei invece faceva tanto cagare.

Una nave è sempre una nave, finisce ad un certo punto, come tutte le cose. Almeno così sembra.

 

Sette giorni dopo

 

E’ lunedì ma la zingara non c’è nel viale dell’ospedale. Rimetto i cinque euro nel portafogli.

  

Un anno dopo

 

Sono per strada, tra la folla di gente che passeggia e si specchia nelle vetrine dei negozi.

Penso a quella nave che è affondata dopo un inchino azzardato. Guardando in TV le riprese dei sommozzatori mi è sembrato di camminare nuovamente lungo quei corridoi ora sommersi dall’acqua. Ho provato di nuovo quella sensazione di claustrofobia alla vista delle cabine, ero di nuovo in quella cabina senza finestre. Per un istante ho udito la musica rilassante del pianoforte a coda, nel salone del ponte principale ed ero lì, seduta al bar a bere e fumare.

Una nave è sempre una nave, finisce ad un certo punto, come tutte le cose. Almeno così sembra.

 

La vedo, in mezzo alla folla, la zingara e le vado incontro. La guardo, da dietro i miei occhiali da sole, mentre le passo accanto, la sfioro quasi. Ho i cinque euro nel portafogli, in una tasca.

Sono sempre lì. Ma oggi non è lunedì.



Regina Re