venerdì 30 novembre 2012

Il tempo delle mani











Il tempo delle mani



Ieri: "Lavati le mani che sono sporche!"

Oggi: "Le mani pulite sono comunque sporche!"

Domani: "Se sei sporco lavatene le mani!

E’ il tempo di indossare un paio di guanti



Regina Re

giovedì 29 novembre 2012

"divertissement"








Un esperimento, un divertissement a quattro mani di Regina Re e nik56, un coordinamento virtuale tra due teste e due modi di scrivere completamente differenti:


"Il tiro"


Mi fa male qualcosa che non so
sto scocciato e ho fatto un po' di tiri oggi
perché il genio, quando c'è, collima tutto.
Ma ora tu che passi ispirami, piantami un chiodo nel cervello
con un tiro lungo.
"Io non so sparare."
Non lo sai se sai sparare o meno,
andasse a fare in culo lo sparare o meno.
Dimmi cosa, dimmi quando, dimmi che.
La cosa che è la stessa cosa, prima e dopo il quando
come quando fuori piove,
piove come e quanto non sai più se e come piove
dove non c'è più il quando.
Piovono chiodi nel cervello senza spari,
Dunque niente chiodi, non ho la mira,
e te l'avevo detto.
È un divertissement, non è poesia.
La poesia fa male. Questa fa il solletico alla pineale.


nik56 & Regina Re
 






mercoledì 28 novembre 2012

tutti "i" pazzi per Me!!!




non disperate se qualcuno vi ha deluse profondamente...
una soluzione c'è :
"Come uscire a testa alta da una porta...senza troppi perché"!

una escalescion di disastri sentimentali raccolta in un unico carnet:

"tutti "i" pazzi per Me!!!”

di Regina Re




Download gratuito dell’E-Book al link:


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sabato 17 novembre 2012

O l'Oméga





"O l'Oméga, rayon violet de Ses Yeux!"
(A.Rimbaud)
 


"Inferno"


C'è chi si suda la pace eterna
e chi manda all'inferno la vita.
C'è chi non avrà mai la pace
e dell'eterno inferno si compiace.




“L’incontro”

Un biglietto da visita ti annuncia
annuncia che la storia comincia
comincia con una fine annunciata.
Un’alba che guarda al tramonto
un tramonto che brama l’alba
il giorno che si ubriaca della vita.
Ti sei specchiata dentro i suoi occhi
ti sei stupita dell’immensa dignità?
Sei rimasta delusa, povera illusa
da chi di te non ha mai avuto paura.



Regina Re






sabato 10 novembre 2012

Master Dei



"La scala buia che va giù in cantina", complimenti per il tema!
La mia scala buia mi ha portata in questa cantina:


“Master Dei”


Se ne stava silenzioso alla sua scrivania.
Quella mattina i corridoi erano disabitati.
Circa 30 minuti d’anticipo sull’orario d’entrata sono una gran conquista per chi vuole evitare il traffico della strada e dei corridoi. Le macchinette del caffè ad ogni piano erano come i caselli dell’autostrada. Era obbligato a fermarsi e a pagare, non per il caffè, ma per ogni “buongiorno” che era costretto ad elargire senza alcuna generosità.
Il caffè non lo beveva, per presa di posizione, per non mischiarsi con chi gli offriva una possibilità ogni mattina per scambiare quattro chiacchiere che poi sarebbero state tramutate in quattro frecce. Non quelle della macchina che varca il casello. Quelle che varcano i confini della sopportazione umanamente concessa.
“Non c’è amicizia intorno alla tua scrivania”, si ripeteva, ogni volta che rifiutava l’ennesimo invito.
Le possibilità le aveva scartate tutte e quindi aveva cestinato anche il caffè e la pausa pranzo. Possibilità che non erano per lui ma per altri. Momenti ludici per spezzare la triste quotidianità di chi si annoiava e aveva trovato in lui un gioco divertente da portare avanti.
Un GdR, un Gioco di Ruolo che dal tavolo si era spostato nel vivo delle coscienze senza nome ma con mille facce.
Chi avesse posseduto una quantità discreta di coscienza, si sarebbe rifiutato di giocare e si sarebbe opposto alle regole dettate dal Game Master.
Ma nessuno ne aveva più di coscienza. Tranne lui.
L’ambiente immaginario, le schede personaggio erano tutte studiate di modo che Alex avrebbe avuto un solo ruolo: quello di chi doveva essere fatto fuori dal gruppo.
Era lì da 30 minuti a ripercorrere la storia delle sessioni di gioco che si svolgevano da un paio di anni ormai.
Ci si era trovato per caso ed il caso, in questi casi, è sempre uno sbaglio.
Aveva accettato l’invito per un caffè, dopo la pausa pranzo.
Era nuovo in quell’azienda e gli era sembrato un buon modo per socializzare.
Aveva accettato l’invito da una delle pedine del Master.
In pochi minuti al Master erano arrivati i suoi dati e Alex, non appena tornato alla sua postazione, aveva ricevuto una mail. Il mittente era semplicemente: “Master”.
Aveva aperto pensando che fossero le solite password dell’I.T.
Si era trovato davanti ad uno schermo nero con una scritta rossa al centro:
“Security Instructions”.
Aveva cliccato sulla scritta convinto che fosse una maniera originale per istruire il personale nuovo e non si era minimamente reso conto di aver varcato la porta dell’inferno.
Del resto la vita è un gioco manovrato dall’alto e che differenza volete che faccia un gioco manovrato dal basso?
Il basso di un edificio  che non è abbastanza alto per sfiorare il primo strato di cielo ma che dona ai suoi abitanti la continua promessa di arrivarci.
Alex aveva giocato la sua prima partita tra applausi e sorrisi e aveva preso i suoi punti guadagnati con il gioco.
Il gioco consisteva nel far fuori un dipendente a caso scelto dal Game Master.
Si era anche divertito a seguire le istruzioni:
“Stampa l’allegato che hai appena ricevuto da Drago 7, Recati presso l’ufficio B16 , 3’ piano e consegnalo dicendo che il documento te lo ha appena consegnato l’autore stesso!”.
Soltanto il giorno dopo era stato chiamato dai piani alti e aveva ricevuto una promozione accompagnata da un cerimoniale di elogi per aver consegnato un documento che incastrava  l’autore stesso. Era un falso e lui lo aveva capito soltanto quando gli era stato detto: “Non vogliamo neanche sapere come ci sei arrivato. Ciò denota una grande intelligenza e una devozione particolare alla tua azienda”.
Stordito era tornato al suo posto. Una nuova mail, nuove istruzioni, un nuovo nome, un nuovo bersaglio. Da quel momento aveva cominciato a cestinare le mail ma lo schermo continuava ad aprirsi e richiedeva di cliccare sulle Istruzioni. Pertanto aveva pensato di ingannare il Master e aveva cominciato a far finta di giocare. Ma alla fine di ogni partita veniva chiamato a fare i conti con qualche pedina.
Aveva stravolto le regole, aveva creato un nuovo gioco dove ogni giocatore ormai riceveva soltanto il suo nome.
L’entità del miglioramento dei suoi personaggi era improntata su tattiche d’astuzia, l’unica arma pulita che gli veniva concessa dal Master.
Il Master offriva potenti mezzi ma in cambio voleva pezzi di cervello virtuale.  Voleva sostituire le parti di cervello attivo con parti di cervello passivo. In cambio avrebbe dato dei bonus a seconda dell’ambientazione del giorno: fiaccole, clave, lance, coltelli, sassi, fucili, pistole, mitra, veleni, bombe.
Ma lui i bonus non li aveva mai accettati.
Erano passati due anni e in due anni aveva superato il limite, era sopravvissuto a tutti i tranelli, aveva superato impossibili livelli.
Quel giorno era lì a studiare. Avrebbe voluto un’arma invincibile per abbattere il cervello che governava quel gioco, per dar fuoco ad Outlook e a tutte le macchinette del caffè e a quella fottuta sala mensa dove nel vassoio ti servivano trappole per primo, secondo e contorno.
Al dolce Alex stava già vomitando e la bottiglietta dell’acqua se la conservava sempre per il dopo.
Mail. Nuovo messaggio. Ore 08.30. Prima nessuno era abilitato a giocare.
Apri. Schermo nero ed una scritta “Canteen”. Entra. Altra scritta: “Menu”.
Si ricordò di quella volta, circa due anni prima, mentre andava a mensa e un tizio gli aveva chiesto in Inglese “I’m sorry, where is the canteen?”. Forse l’emozione, aveva capito “cantina”  e gli aveva indicato un ristorante che aveva una cantina e che si trovava proprio nella zona industriale.
La barra menu aveva una sola opzione.
Aveva cliccato e si era trovato una scala in 3D, nella penombra era apparsa una busta che conteneva le Istruzioni.
L’aveva aperta.
Un solo imperativo: “Go down stairs”.
Era sceso e alla fine della scala aveva trovato una scrivania ed un PC.
Il PC era in Stand by.
Aveva mosso il mouse e si era trovato lo schermo nero con al centro una scritta rossa:
“Welcome to the Mob Island”.
Una risata era schizzata fuori dal PC e si era piantata proprio lì, sulle sue labbra.



Regina Re

 















domenica 4 novembre 2012

Il rosso incorniciato




Il rosso incorniciato nasce da una scala buia.

Mi sono ritrovata di fronte ad una “scala buia”.

La scala buia mi ha riportata nella soffitta della mia infanzia, in una notte in cui qualcuno decise di canticchiarmi una ninna nanna accompagnando il testo con la chitarra.

Per anni ho creduto che la donna del quadro fosse stata inventata sul momento.

Invece questa donna ha una nome: “Susanna naif”, canzone del 1975.

A voi le mie note:



“Le note di un quadro”



C’è sempre una scala che sale nella nostra vita

nel buio del nostro indugiare, il buio è la calamita che ci fa pietrificare

la porta aperta è il richiamo 

la storia di una donna nata in un quadro

che il tempo attraversa 

e come una scultura nella nostra memoria resta


Con note naif dipinta a Belgrado

Susanna naif, la donna del quadro:


“note di chitarra suonano ninna nanna

e scende scende su corde vibranti

nei sogni dei bimbi e nei loro malanni

la donna del quadro vestita di rose

che vaga nel buio delle memorie

le notti di luna saliva la scala

che dal quadro a vita la riportava

e nell’angolo di una memoria traditrice

di quel quadro restava la sola cornice”




Il rosso incorniciato 


Si dice che il “mattino ha l’oro in bocca”, sebbene nella bocca si continui ad assaporare  il piombo dell’ultima sigaretta, mentre il cucchiaino compie giri in senso orario nella tazza di caffè, tentando di sciogliere la quantità di pensieri che accompagnano l’inizio di un giorno qualunque.

Proprio mentre Anna si perdeva nel nero di quel caffè e già pensava alla successiva fase sigaretta Cartier Vendome red light 100s, una sensazione di fastidio improvvisa si stava impadronendo di lei.

Alle 07,00 del mattino qualcosa non era in ordine. Fece un breve appello.

La lavatrice singhiozzava a tratti, la lavastoviglie era pronta, l’asciugatrice era stata programmata e la macchina del caffè alle 06.45 aveva già acceso la sua lucetta verde e buttato fuori il quantitativo necessario  che avrebbe reso Anna una persona sveglia e pronta per la sua sigaretta bianca.

A chi le chiedeva come mai fumasse sigarette così costose lei rispondeva: “Come si fa a non accostare questa sigaretta al rosso di queste unghie laccate?”.

Una bella mano non poteva avere unghie rovinate o smalto da quattro soldi e una bella mano con unghie rosse laccate poteva tenere soltanto quella sigaretta. Il bianco della sigaretta si sarebbe macchiato dello stesso rosso delle labbra e anche quelle labbra erano labbra costose, come i suoi baci, che non aveva mai regalato a chi non li meritasse veramente. 

Per Anna la bellezza era immagine e valore intramontabile, per il quale qualsiasi prezzo era quello giusto.

L’accendino e il porta sigarette erano pronti vicino alla tazza di caffè, in una posizione studiata, esattamente alla sua destra ed Anna era comodamente seduta sulla sua sedia antica, ritappezzata da poco, ancora profumata dalla tinta oro che la restauratrice aveva passato per reinvecchiare i suoi caratteri.

Incredibile come le piacesse invecchiare qualsiasi cosa, antico era il suo stile preferito che si intonava con il suo accendino e con il suo porta sigarette preso da quell’antiquario.

Tutto doveva essere in ordine intorno a lei e coordinarsi su di lei.

Qualcosa però le era sfuggito. Si guardò intorno. La sua gatta grigia l’aveva guardata con un solo occhio, un saluto alla sua padrona e poi era tornata a richiuderlo. Lo sguardo di Anna si era dunque posato sulla ciotola rossa, no non erano le crocchette a mancare. 

Rosso rubino, sì un bel collarino rosso  sarebbe stato perfetto, pensò per un attimo guardando il pelo grigio lungo e folto che veniva curato come qualsiasi cosa le appartenesse.

L’aveva visto il collare, non era un collare per gatti, ma un cinturino in pelle rossa con swarovsky che sarebbero sembrati diamanti intorno a quel collo. Poi si era ricordata le parole del veterinario: “Me ne hanno portati di gatti in fin di vita per aver tentato di togliersi il collare”, le aveva detto quando lei aveva palesato le sue intenzioni colta dal desiderio di intonare anche il suo gatto alle sue unghie, al suo rossetto, al marchio delle sue Cartier.

Aveva spento la sigaretta e il luccichio degli svarovsky nei suoi pensieri era stato oscurato, insieme al tabacco rovente, dalla pressione delle dita, vestite di ali rosse, nel portacenere di cristallo di Boemia.

L’aveva comperato in quel negozio “Le rouge” e quel giorno era indecisa tra la bottiglia e il portacenere. Ma dove le sue unghie rosse sarebbero spiccate di più se non nel momento della morte delle sue Cartier? E quel giorno aveva abbinato al portacenere il porta sigarette d’argento, sul quale si poteva ammirare il disegno inciso a mano del volto di una donna. 

Stile liberty.

Le somigliava quasi quel volto ma mancava il rosso, quello delle labbra e dei suoi capelli.

Si guardò intorno prima di alzarsi dal quel trono elegante e compiacersi per la perfezione che la circondava. L’ordine la rendeva tranquilla, le dava la razionalità necessaria per non perdere mai la calma. Dunque sapeva che quel pezzo mancante sarebbe arrivato molto presto. Chiuse gli occhi per un istante, godendo degli ultimi momenti della sua solitudine mattutina,  07,30, ancora per qualche minuto qualcuno avrebbe potuto scambiarla per una giovane donna raffinata che viveva sola in una splendida casa con un grigio gatto siberiano che mai si sarebbe intonato con le sue unghie ma che era stato scelto perché il suo pelo si intonava perfettamente con gli occhi della sua signora.

Lo sbattere delle palpebre sembrava aver fatto svegliare gli altri abitanti di quella casa.

Il signor marito e il giovane ragazzino. Paolo e Andrea sarebbero apparsi ad ore 07,35.

Il “ciao tesoro” di Paolo e il “ciao mamy”  di Andrea le avrebbero disegnato un sorriso sulle labbra ancora rosa, labbra che li avrebbero baciati entrambi sulla bocca senza lasciare tracce. Loro avrebbero ritirato le loro tazze fumanti di latte e si sarebbero seduti uno di fronte l’altro ipnotizzati dal bianco. Loro il caffè non lo amavano e neanche le Cartier amavano. Ma amavano lei e facevano finta di amare anche le sue Cartier.

Proprio mentre passava le sue lunghe dita tra i capelli di quella testolina che le si avvicinava ad altezza vita, trovò il tassello mancante, quello che era sfuggito all’appello.

“Appuntamento ore 10.00 per quel quadro”. Quel quadro non era un quadro qualunque. Era un quadro speciale.

Ciò che mancava all’appello erano la prima delle due notifiche all’evento,  esattamente tre ore prima. La seconda sarebbe scattata un’ora prima dell’appuntamento.  Aveva controllato il cellulare . Ricordava benissimo di averlo programmato correttamente ma la sera precedente Andrea lo aveva preso per giocare. Ancora una volta il suo cervello aveva anticipato qualcosa che in taluni casi può non funzionare.

 Ancora una volta ci era arrivata da sola.

Con un sorriso di compiacimento si era passata nuovamente una mano tra i capelli, lisci e perfetti e aveva pensato che finalmente avrebbe avuto il quadro per quella parete vuota, quella di fronte al tavolo, alla tazza, alle Cartier, all’accendino, al porta sigarette e al cristallo di Boemia.

Lo cercava da tempo un quadro ma i quadri non riuscivano mai a catturare lei.

I suoi occhi riconoscevano il valore della bellezza e non c’era cosa che indossasse che non cadeva nei complimenti di qualcuno.

La doccia alle 07,45  aveva il compito di ricordarle che un corpo non muore se lo si rende immortale. Immortale nelle forme, nei movimenti e in ciò che lo ricopre. Pelle, la pelle che veste, il suo colore candido, come se al sole mancasse il coraggio di guardarlo. 

Il tubino verde petrolio l’attendeva nella cabina armadio, le parigine pronte erano disposte, come i vestiti, in ordine di toni. Quelle rosse con la loro borsetta rossa. Il trucco ad ore 8,00 sarebbe stato veloce.

Cipria compatta che non avrebbe alterato la sua carnagione, matita nera, ombretto verde petrolio, rimmel, fard e rossetto rosso. Il tutto racchiuso in un cofanetto, il tutto marchiato Dior, il Dio che era solita ringraziare ogni mattina.

Lo ringraziava per gli sguardi di consenso e ammirazione che riceveva ogni giorno e anche per quell’attico,  la lussuosa dimora che il padre le aveva lasciato. Le aveva anche lasciato abbastanza soldi per vivere bene e lei li rispettava, come rispettava lo stile e la raffinatezza che aveva ereditato, insieme a tutti i mobili, agli argenti , ai cristalli, ai quadri.

La madre li aveva scelti ma poi aveva scelto di andar via. Di lei le era rimasto un guardaroba vuoto in camera di suo padre, quella parte dell’armadio che il padre non aveva più saputo riempire.

Il padre comunque aveva fatto il padre. La madre invece aveva pensato di continuare a fare la madre altrove, portandosi via un ritratto ad acquerello di Anna da bambina. 

Anna si era chiesta spesso il perché ma poi i perché erano diventati  troppi e quindi aveva lasciato sua madre ad ammirare da sola quel ritratto, da qualche parte, ma non le interessava dove.

Saluto alle 08.30, quando Paolo ed Andrea uscivano di casa e lei era pronta con un bacio per entrambi, il bacio che li marchiava perché loro avrebbero portato lei sul  viso ancora per un po’, il tempo di rimuoverla con la mano dalle loro labbra. 

Lo specchio le aveva appena detto che erano le ore 08,45, un ultimo sguardo a borsetta , parigine, rossetto, unghie e sigaretta. Sì, era perfetta.

A ore 9,00 il “Buongiorno Signora” discreto del portiere, come ogni mattina.

Ore 9,01 e il mondo veniva schermato dai grandi occhiali stile Jackie O.

La sigaretta prendeva nuovamente a respirare tra le lunghe dita e tra il rosso laccato che le custodiva.

Le vetrine si specchiavano negli occhiali di Anna e Anna adorava i manichini che sembravano imitarla non riuscendo mai ad essere perfetti come lei.

Li avrebbe osservati tutti con la coda dell’occhio senza soffermarsi troppo su di loro, come faceva con le persone : “Le persone vanno guardate il tanto che basta per dir loro che non hai tempo per guardarle di più. Il tuo tempo è programmato perché tu possa dominarlo e camminarci sopra. La tua passerella è fatta di passi, non uno in più, non uno in meno. Quelli necessari perché tu possa essere ammirata da tutti.”

Lo aveva letto su una delle riviste glam che comperava abitualmente e se lo ripeteva almeno una volta al giorno durante la sua passeggiata mattutina. Un’ora di beatitudine concessa agli altri.

La passeggiata era terminata nel momento in cui l’insegna “Le rouge” aveva attraversato le lenti dei suoi occhiali, le parigine avevano varcato l’entrata della piccola bottega,  le sue lunghe dita si erano prese la briga di scoprire i suoi occhi che avevano oltrepassato discreti l’ingresso annunciati dalla sua voce sicura ed amichevole: “Buongiorno Monsieur!”.

Si era poi fermata come una modella in posa, attendendo il complimento di Michel.

“Bonjour chérie!” aveva detto Michel che dopo averla guardata aveva esclamato: “Diex…tu ne peux pas tuer moi comme ça!”

Anche per lui c’era un bacio sulle labbra, quello di un’amica ad un’amica che la ammira.

“Allora, dov’è?” aveva chiesto Anna dirigendosi dove solitamente Michel teneva le sue sorprese e stava per tirare la tenda che le avrebbe scoperto la galleria quando la voce di Michel l’aveva avvisata: “Uccidimi ma non c’è…” aveva detto alle 5 unghie rosse che avevano strattonato con curiosità la tenda, “Anzi, uccidi chi l’ha rubato ieri sera!”.

Anna si era bloccata a quella parola : “Rubato, rubato, rubato…”, pensava,  mentre voltandosi ed abbozzando un sorriso di superiorità, con uno sguardo interrogativo aveva chiesto: “E chi avrebbe rubato il mio quadro?”

Michel l’aveva guardata e scuotendo la testa le aveva detto: “Non ho avuto il coraggio di chiamarti, ho preferito dirtelo di persona. Eri così bella che lei ha pensato di portarti via ieri…”

Michel si era messo seduto sulla poltrona oltre la tenda ammirando la cornice in foglia oro  barocca che era rimasta esposta con un vuoto al centro. Aveva spiegato ad Anna che il giorno prima, verso l’ora di chiusura una donna molto raffinata era entrata nel negozio e aveva chiesto una cornice barocca. Michel le aveva risposto che le cornici venivano realizzate solo su misura e che avrebbe dovuto portare il quadro da incorniciare per dagli la possibilità di trovare la soluzione migliore. Allora la donna aveva appoggiato sul bancone una shopping bag rossa Cartier e ne aveva estratto un ritratto ad acquerello di una bambina. Michel aveva esclamato: “Très jolie! Mais oui… madame, le mostro il mio ultimo lavoro per darle l’idea di cosa possiamo realizzare”. 

Michel aveva invitato la donna a visitare la galleria dove era esposto il ritratto di Anna. “Potrei realizzarne una simile ma più piccola per il suo quadro” aveva detto mentre la donna invece aveva lo sguardo fisso non sulla cornice ma sul volto che conteneva. “Madame?” Aveva accennato Michel ma la donna era rimasta in silenzio e poi con molta delicatezza aveva schiarito la voce che sembrava essersi bloccata per poi sussurrare con dolcezza ma con una tonalità graffiante: “È perfetta , proprio come lei…” poi la voce le si era ristrozzata in gola e ancora aveva chiesto a Michel : “Avrebbe un catalogo per scegliere la tonalità della foglia oro?” . Michael aveva prontamente fatto un inchino e si era voltato per raggiungere lo scaffale situato proprio dietro le sue spalle ma nello stesso istante era squillato il suo cellulare e stava per silenziarlo quando aveva visto apparire

quel nome ed erano giorni che attendeva quella chiamata. “Excusez-moi Madame… “ aveva detto voltandosi per un istante verso la donna e poi nuovamente si era diretto verso lo scaffale mentre rispondeva al telefono con il tono molto basso: “Mon chéri quel honneur! Ti richiamo subito resta  lì davanti al telefono …” 

Aveva chiuso la chiamata e si era voltato di nuovo. La donna non c’era più. E neanche il ritratto di Anna. 

“Eri così bella che ti ha portata via” aveva concluso Michel.

Anna aveva ascoltato la storia e aveva continuato a fissarlo senza guardarlo, guardava oltre, come sempre , andava oltre le cose che la turbavano e le persone che la deludevano. Lasciò scivolare quella lacrima invisibile che le era scesa dal cuore che, per un istante, aveva avuto uno spasmo.

Nel vuoto della cornice incontrò lo sguardo di quella bambina che non ricordava e che per un istante sembrò sorriderle per poi svanire sempre in quel vuoto che ormai da anni circondava la sua infanzia.

Quel quadro che da sempre aveva rincorso era il suo ritratto, erano i suoi capelli, i suoi occhi, le sue labbra, la sua mano e le sue unghie, rossi riflessi della sua vita. 

Nessun colore si avvicina di più al colore del sangue. Aveva sostituito il cuore con vernice laccata che si asciuga all’istante, senza colare, senza sbavare.

Il cuore invece perde colore, si contrae in spasmi, ti fa provare dolore.

“Michael, quella la prendo comunque”, 

aveva detto mentre prendeva il blocchetto degli assegni e impugnava la Cartier, quella che saldava i suoi conti.

Michel pronto le aveva detto : « No, chérie, questo è il mio regalo, pardonne-moi ! » e l’aveva abbracciata dopo averle sfiorato la mano con le sue labbra che mai avrebbero potuto lasciare segni sulla sua pelle.

Michel aveva chiamato un taxi a scortare la signora e la sua cornice in una casa non troppo distante da quella strada.

E la sera si era addormentata sotto il rosso di un tramonto laccato.

Si dice che il “mattino ha l’oro in bocca” e questo mattino aveva un sapore particolare mentre il cucchiaino compiva i suoi giri in senso orario nella tazza di caffè, tentando di sciogliere quella domanda a cui Anna non aveva mai saputo dare una risposta.

Ma tutto era in ordine alle ore 7 del mattino, tutto era organizzato intorno a lei e si coordinava su di lei.

L’accendino e il porta sigarette erano pronti vicino alla tazza di caffè, alla sua destra. Tutto era perfettamente invecchiato intorno ad Anna.

Come quella cornice che racchiudeva quel vuoto innanzi ai suoi occhi grigi.

Nel vuoto vide la sua spasmodica ricerca di un quadro per la sola soddisfazione di essere riconosciuta, di essere vista. 

E lei sapeva da chi.

Con un sorriso di compiacimento si era passata una mano tra i capelli, lisci e perfetti e aveva e pensato che finalmente aveva avuto il quadro per quella parete , quella di fronte al tavolo, alla tazza, alle Cartier, all’accendino, al porta sigarette e al cristallo di Boemia.

Da sempre aveva rincorso la bellezza per raggiungere, infine, una sorta di consapevolezza di se stessa e conseguente accettazione di una una pacifica convivenza con il vuoto.


Regina Re